Le ultime settimane hanno suscitato nuove speranze riguardo ad una soluzione della guerra in Yemen, dopo il riavvicinamento tra Arabia Saudita e Iran e il dialogo, facilitato dall’Oman, tra Arabia Saudita e Houthi. In molti hanno riflettuto sulla dimensione umanitaria della crisi, sulla ricalibrazione delle politiche interne ed estere degli attori regionali e sul ruolo delle grandi potenze.
Tuttavia, mentre grande enfasi è stata data ai passi compiuti dalle monarchie del Golfo verso la loro riconciliazione e con i loro avversari regionali, una riflessione critica sul ruolo giocato dagli attori occidentali è necessaria per meglio comprendere la dimensione internazionale del conflitto ed interrogarsi sulla lungimiranza delle posizioni prese dal 2011 in poi.
Dal conflitto all’inizio della transizione
In Yemen, gli Stati Uniti e i loro alleati hanno a lungo accettato di non seguire gli sviluppi interni del paese, lasciando all’Arabia Saudita la possibilità di influenzare gli affari interni del paese in base alla concreta percezione da parte saudita delle principali minacce e opportunità del momento.
Dal 2011 in poi, l’attenzione verso lo Yemen è aumentata all’interno della più ampia cornice mediatica delle cosiddette “primavere arabe”, con una particolare preoccupazione statunitense verso l’espansione di attori non statali nella rivolta, spesso inserendo nello stesso calderone Al Qaeda, gli Houthi e i movimenti secessionisti. In tale contesto, il Consiglio di Sicurezza Onu e l’Unione europea si sono completamente allineati alle iniziative del Consiglio di Cooperazione del Golfo (CCG).
A seguito delle pressioni interne ed esterne, il presidente dello Yemen Saleh lasciò il potere al suo vice, Hadi, tra i plausi della comunità internazionale per le prospettive di una transizione politica pacifica attraverso la creazione di una Conferenza sul Dialogo Nazionale (CDN) nel 2013-2014, promossa dai paesi del CCG e supportata da Onu, Ue e Usa. L’Unione Europea lodò l’iniziativa come un esempio di inclusività per la regione. Eppure, la soluzione federale proposta dalla CDN fu rigettata sia dagli Houthi che dai movimenti secessionisti del Sud, mostrando un chiaro sfasamento tra i contenuti dell’iniziativa e l’evoluzione della situazione sul terreno.
Il ruolo di Ryiadh
La presa di Sana’a da parte Houthi a settembre 2014 fornì al neo-re saudita Salman bin Abdulaziz e al figlio Mohammed (MBS) l’opportunità di proiezione di potenza, prestigio e legittimità interna che stavano cercando. Nel frattempo, gli Emirati Arabi Uniti poterono avanzare indisturbati i propri interessi strategici e commerciali nel sud del paese sia durante l’operazione militare sia dopo il ritiro ufficiale nel 2019.
Nonostante molti esperti sollevassero dubbi già nel 2015 sull’intervento militare della coalizione a guida saudita, la comunità internazionale lo ha fortemente sostenuto all’interno del quadro normativo dell’Onu, legalmente giustificato dalla richiesta di intervento da parte del governo internazionalmente riconosciuto. Inoltre, nonostante i considerevoli cambiamenti interni, l’Ue e l’Onu hanno continuato a considerare i risultati della CDN come precondizioni a qualsiasi soluzione pacifica del conflitto in Yemen, escludendo sia gli Houthi che i secessionisti del Sud dai tavoli negoziali e di fatto bloccando qualsiasi effettivo sviluppo. Il totale supporto dell’Amministrazione Trump alle operazioni saudite, unito all’inserimento degli Houthi nella lista delle organizzazioni terroristiche, ha ulteriormente esacerbato il vizio di forma e di sostanza dei negoziati.
Nel corso degli anni, l’Unione europea ha cominciato a distanziarsi dalle posizioni Usa su questo punto. Dal 2017, il Parlamento Europeo ha smesso di menzionare l’Iniziativa del CCG e la CDN, ma ha invocato negoziati che includessero tutte le parti coinvolte senza precondizioni. Inoltre, già dal 2016, il Parlamento europeo aveva cominciato a condannare la vendita di armi a quegli attori che violassero il diritto umanitario in Yemen, per quanto con scarsi risultati.
Solo nel 2018, l’omicidio del giornalista Khashoggi ha ricordato al mondo che l’Arabia Saudita era uno dei peggiori esempi mondiali in termini di tutela dei diritti umani e civili. Tempestivamente, molti paesi hanno preso sempre più coscienza del disastro umanitario e del loro ruolo nel finanziare una guerra guidata dal controverso Mohammed bin Salman.
Nel 2021, in corrispondenza con il cambio di approccio dell’Amministrazione Biden, il Parlamento europeo ha aumentato le proprie condanne nei confronti della vendita di armi ad Arabia Saudita ed EAU. L’ambivalenza tra le posizioni del Parlamento Ue e degli Stati membri ha portato a comportamenti schizofrenici riguardo al rispetto del divieto. L’Italia, per esempio, ha revocato le licenze per bombe aereo nei confronti di EAU e Arabia Saudita il 29 gennaio 2021, appena 19 giorni dopo un incontro tra Di Maio e MBS per discutere un MoU per un dialogo strategico. Inoltre, pochi mesi dopo, gli Emirati Arabi Uniti reagirono con un divieto di sorvolo ai velivoli militari italiani diretti in Afghanistan. A luglio 2021, il governo italiano prontamente rispose con un nuovo allentamento delle restrizioni agli export.
Lezioni di pragmatismo dal Golfo
Nel frattempo, mentre l’attenzione oscillava tra chi definire terrorista, a chi vendere armi, quanta colpa dare all’Iran, e se MBS fosse un carnefice o un visionario, gli attori regionali hanno ulteriormente modificato le loro posizioni. La pandemia, l’evoluzione delle condizioni socio-economiche dei vari paesi coinvolti, e le nuove opportunità commerciali verso l’Asia orientale, hanno contribuito a far prediligere politiche volte ad una maggiore stabilità interna e regionale.
In questo contesto, i Paesi occidentali hanno, con decenni di ritardo, finalmente capito che le relazioni dei paesi del Golfo Persico con gli attori regionali e internazionali sono sempre state basate su motivazioni pragmatiche piuttosto che ideologiche. Così, non deve stupire che i sauditi abbiano cominciato a parlare direttamente con gli Houthi, al di fuori e in parallelo ai negoziati Onu. Né che abbiano (ri)cominciato a dialogare con gli iraniani, con Assad in Siria o con gli israeliani.
Quello su cui è invece opportuno riflettere è che al momento del lancio dell’operazione Decisive Storm nel 2015, e poi negli anni successivi, si è riproposta per l’ennesima volta in Europa, e soprattutto negli Stati Uniti, la narrazione di un intervento legalmente legittimo contro un’organizzazione terroristica, così mascherando la natura imperialista e gli interessi intrecciati ad essa di un’invasione che ha esasperato la più grave crisi umanitaria al mondo.
Foto di copertina EPA/YAHYA ARHAB