22 Dicembre 2024

Sostenibilità e salute globale: gli obiettivi del World Economic Forum

Il prossimo World economic forum – previsto inizialmente a gennaio ma spostato a giugno nella tradizionale sede di Davos – si terrà in un clima di grande incertezza a causa della perdurante pandemia. L’attenzione sul tema sarà quindi altissima, anche perché è stato proprio il Wef, nel giugno del 2020, a sottolineare l’importanza di sfruttare la crisi per promuovere un generale ‘reset’ delle nostre società. Obiettivo ambizioso, un ‘great reset’ è auspicabile non solo per recuperare i disastri economici e sociali causati dalla gestione del Covid-19, ma anche e soprattutto perché la comunità internazionale ha accumulato significativi ritardi nel raggiungimento degli obiettivi di sostenibilità indicati dall’ONU nell’Agenda 2030.

Il problema della salute globale

Aspetto ancora più importante, come sottolinea lo stesso Klaus Schwab, presidente esecutivo del Forum, i segnali di tali ritardi erano visibili già prima della pandemia. E in nessun campo tale regressione appare più significativa di quello della salute globale. In particolare, è evidente il ritardo accumulato in termini di prevenzione delle malattie non trasmissibili (NCDs), uno dei diciassette obiettivi di sostenibilità nonché causa, secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità di circa quarantuno milioni di morti (cioè oltre il 70% dei decessi a livello globale) all’anno. Da decenni.

Nonostante la portata del fenomeno, tuttavia, non sembra sia stato fatto abbastanza per finanziare la prevenzione di questi disturbi. Ciò è di per sé un aspetto quantomeno singolare, considerato che da decenni si parla dell’importanza della prevenzione, salvo poi incanalare competenze e finanziamenti verso settori molto più orientati alla cura. Inoltre, tali considerazioni sono ulteriormente aggravate dal fatto che molte delle NCDs sono malattie autoinflitte (quindi prevenibili), causate dalle nostre insalubri abitudini, sia dal punto di vista produttivo che di consumo.

Il fatto che, incidentalmente, tali patologie siano anche alla base della quasi totalità dei decessi in presenza di Sars-CoV-2 (in Italia, il 97,1%) dovrebbe fare riflettere sull’importanza di curare il nostro organismo e il nostro sistema immunitario, cruciali nella prevenzione degli effetti di shock esterni, che spesso risultano aggravati dalle nostre abitudini. Lo stesso Tedros Ghebreyesus, direttore generale dell’OMS, afferma che “la pandemia ha evidenziato il grave pericolo delle malattie non trasmissibili e ha segnalato l’urgente necessità di politiche e investimenti di sanità pubblica più forti per prevenirle. Esortiamo i leader mondiali a livello pubblico e privato ad adottare misure aggressive per prevenire le malattie non trasmissibili. Meno malattie non trasmissibili avrebbero significato meno morti durante la pandemia.

Il paradosso delle politiche di prevenzione

Nella sua analisi sull’Agenda 2030, il WEF scrive che “dobbiamo accogliere l’innovazione, anche nel modo in cui facciamo le cose”. Premessa corretta. Ma è importante che questa presa di coscienza avvenga a livello collettivo. Appare incoerente, infatti, continuare a indulgere in eccessi alimentari e sedentarietà, salvo poi far pagare il conto dei nostri comportamenti malsani alla comunità in cui viviamo – sia in termini diretti (attraverso le spese sanitarie pubbliche) sia indiretti (impedendo l’utilizzo di quelle risorse in altri settori). Così come risulta paradossale permettere, da un lato, la vendita di bevande e alimenti eccessivamente zuccherati e, dall’altro, spendere tempo e risorse pubbliche in campagne per la prevenzione dell’eccesso ponderale.

Altrettanto paradossale appare il ruolo dello Stato, che da un lato permette la vendita di sigarette e, dall’altro, apparentemente ad un costo tre volte superiore rispetto a quanto incassa tramite la vendita di tabacco, cura i suoi cittadini per malattie causate dal fumo. Sembra poco ragionevole, infine, permettere di produrre (e quindi di acquistare) mezzi di trasporto privato sempre più potenti in un contesto in cui (a) gran parte della comunità internazionale è impegnata a ridurre il consumo di fonti combustibili; (b) l’eccesso di velocità causa circa 1,3 milioni di morti all’anno; (c) le aree urbane – dove vive più della metà della popolazione mondiale – sono spesso ben servite dai mezzi pubblici e in grado di fornire servizi entro distanze percorribili a piedi.

Agire individualmente non basta

Inevitabilmente, le misure andranno prese a livello politico, economico e regolamentare. E dovranno essere coerenti. Perché è palpabile la necessità di cambiare le ‘regole del gioco’, in particolare (sebbene non esclusivamente) per il sistema sanitario globale, ‘appesantito’ da pratiche di dubbia moralità (ad esempio il cosiddetto “disease mongering”) e da ciclopici conflitti di interesse.

Ma questo non deve impedirci di prendere l’iniziativa anche come singoli, perché è fondamentale che il ‘great reset’ trovi una sua dimensione a livello individuale. Una sorta di ‘woke movement’ mirato a riportare la considerazione dei nostri doveri al centro delle attività quotidiane. Una presa di coscienza collettiva che ci permetta (a) di dare il nostro contributo a migliorare i nostri standard di vita e (b) contestualmente, ci metta nelle condizioni di influenzare positivamente l’agenda pubblica. Un risveglio, in ultima analisi, in cui capacità di autocritica e assunzione di responsabilità abbiano il sopravvento sulla nostra naturale inclinazione alla creazione di paradossi e all’autoindulgenza.

Foto di copertina EPA/SALVATORE DI NOLFI

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