Il 9 ottobre gli austriaci hanno rieletto al primo turno il 78enne Alexander van der Bellen presidente della Repubblica, con il 56% circa dei voti (dato provvisorio), per altri sei anni. Van der Bellen è stato professore di economia e leader dei Verdi. Di idee progressiste anche in materia di immigrazione, diritti LGBT, droghe leggere e doppia cittadinanza, oltre che ambientalista ed europeista, è violentemente avversato dal partito di estrema destra FPÖ. Dal canto suo, ha più volte detto che qualora tale partito raggiungesse la maggioranza relativa sarebbe riluttante ad affidare al suo leader l’incarico di guidare un nuovo governo.
La figura del Capo dello Stato austriaco
Trattandosi di un regime parlamentare analogo al nostro e a quello tedesco, in cui l’indirizzo politico spetta al cancelliere (o presidente del Consiglio), e non di un sistema semi-presidenziale alla francese, l’elezione popolare del Capo dello Stato appare come una anomalia. È frutto di una riforma costituzionale del 1929 (ma messa in pratica solo a partire dal 1951), voluta in tempi agitati dai cristiano-sociali per rafforzare il potere esecutivo, ma temperata ai fini di un compromesso con i socialdemocratici. Tale finalità si riflette anche nel potere del tutto discrezionale del presidente di licenziare un governo e nominare un nuovo cancelliere a sua scelta – e se prevede che non otterrà la fiducia sciogliere il Parlamento. Questo potere, che rappresenterebbe un avvicinamento al modello semi-presidenziale, è sempre stato considerato puramente teorico (Rollenverzicht, rinuncia a ruoli).
Come nel ballottaggio del 2016, l’ecologista van der Bellen non ha dovuto affrontare rappresentanti dei due partiti maggiori. Allora aveva vinto di misura contro Norbert Hofer della FPÖ, partito di destra con radici neo-naziste. Questa volta ha solo dovuto affrontare le azioni di disturbo di una mezza dozzina di “Sig. Nessuno”, spinti solo dal desiderio di farsi pubblicità e di sfruttare le tribune televisive per propagandare slogan populistici. È un effetto del requisito troppo modesto per la presentazione di una candidatura, seimila firme, oltre che della scarsa ambizione degli ex-cancellieri e altri politici illustri a candidarsi (preferiscono passare al privato: Consigli di Amministrazione e contratti di consulenza).
I concorrenti – quasi tutti di estrema destra – hanno cavalcato la protesta per le misure anti-Covid, le sanzioni, l’immigrazione illegale, l’inflazione. L’eccezione è il trentacinquenne Dominik Wlazny, un medico e musicista rock, fondatore del Partito della Birra, che ha portato via parecchi voti di giovani al progressista van der Bellen (circa l’8%). Se insieme fossero riusciti a impedirgli di raggiungere il 50%, sarebbe andato al ballottaggio, con il 18% circa, Walter Rosenkranz della FPÖ, unico rappresentante di un partito.
La situazione e gli equilibri dei partiti
Durante la campagna del 2016, Hofer si era ripetutamente detto propenso a far uso del suddetto potere di licenziare un governo non di suo gradimento (e quindi ingaggiare un braccio di ferro con il Parlamento). Con la vittoria risicata di van der Bellen, la democrazia parlamentare austriaca ha allora scampato un pericolo.
L’FPÖ andò poi al governo alla fine del 2017 in una coalizione con il Partito Popolare (democristiano) di Sebastian Kurz, piazzando il suo leader Karl-Heinz Strache come vice-cancelliere, Norbert Hofer come Ministro delle Infrastrutture, e Herbert Kickl (il leader attuale) agli Interni. Grazie allo scandalo “Ibiza”, nel 2019 Kurz potè liberarsi dell’ormai impresentabile Strache (espulso anche dal suo partito), poi ottenne dal presidente il licenziamento di Kickl (rarissimo caso di estromissione di un ministro), provocando l’uscita dell’FPÖ dalla coalizione. L’FPÖ si vendicò pochi giorni dopo facendo cadere il governo Kurz con un voto di sfiducia, complici i socialisti. Ma Kurz si rifece mezz’anno dopo con una nuova vittoria elettorale.
Si è così arrivati, ai primi del 2020, alla alleanza fra i Popolari e i Verdi, che è sopravvissuta al secondo siluramento di Kurz, esattamente un anno fa (11 ottobre 2021), voluto dagli alleati Verdi ma anche dalla vecchia guardia dei Popolari. Sotto l’attuale cancelliere Karl Nehammer il Partito Popolare, che Kurz aveva portato dal 20% circa al 37,5 % nelle elezioni del 2019, è scivolato poco sopra il 20%, dove si disputa il secondo posto con l’FPÖ. In calo anche i Verdi, scesi dal 14 al 10% circa. Se si dovesse eleggere oggi un nuovo parlamento, la coalizione turchesi-verdi avrebbe un magro 30%. In ascesa sono i socialisti, con il 29% circa (dal 21,5 delle ultime elezioni).
La posizione sull’immigrazione di Nehammer
L’intesa fra i partiti al governo scricchiola, ma il cancelliere Nehammer non si può permettere una crisi ed elezioni anticipate. Ha dovuto fare qualche concessione ai Verdi, fra l’altro in materia di richiedenti asilo, al punto da spingere la Segretaria Generale del partito alle dimissioni.
Ma sulla immigrazione la linea rimane nell’insieme quella rigorosa inaugurata da Kurz. L’Austria ha ristabilito i controlli alle frontiere con Ungheria e Slovenia, e ora anche con la Slovacchia per bloccare una nascente rotta alternativa a quella balcanica. Per rafforzare il contrasto a quest’ultima, Nehammer si è recentemente incontrato a Budapest con Orbán e con il serbo Vučić. Per discutere i dettagli della collaborazione a tre, il 6 ottobre si sono recati a Belgrado i Ministri degli Esteri e dell’Interno. L’Austria contribuirà ai controlli lungo la frontiera fra Serbia e Nord-Macedonia e ai rimpatri.
Salvo sorprese, la coalizione turchese-verde dovrebbe continuare a governare, pur fra dissapori e con un consenso popolare sceso al 30%, per altri due anni: le prossime elezioni dovrebbero tenersi nel 2024. A guidare il prossimo governo aspira Pamela Rendi-Wagner, medico, ex Ministro della Sanità, attualmente leader dei socialisti (detti rossi), a meno che non riesca a farle le scarpe il leader dell’ala destra, Hans Peter Doskozil. Probabili alleati i Verdi e i Neos (liberali). L’Austria seguirebbe così l’esempio tedesco: una Ampelkoalition, o “coalizione semaforo”.
Foto di copertina EPA/CHRISTIAN BRUNA