A chi si chiede se l’Unione Europea ha reagito in maniera adeguata alla crisi provocata dall’invasione russa dell’Ucraina credo che si debba rispondere in maniera affermativa. Perlomeno se si considerano gli strumenti di cui dispone la Ue allo stato attuale. Se si parte cioè dalla constatazione che la costruzione europea è comunque ancora un processo in corso, che le priorità in materia di proiezione internazionale e gli interessi di sicurezza dei suoi Stati membri non sempre necessariamente coincidono, che un’autentica politica estera comune è ancora un cantiere in corso d’opera, e infine che l’Unione europea non dispone di una sua autonoma dimensione di difesa.
L’unità dell’Unione europea
Nel passato riuscire a definire una posizione comune dei 27 (o dei 28) nei confronti della Russia era una operazione complessa, che richiedeva estenuanti mediazioni. Alla prova dei fatti riemergevano costantemente le divisioni, dettate della storia e dalla geografia, fra chi considerava la Russia soprattutto una minaccia alla propria sicurezza, e chi vedeva nella Russia un partner economico affidabile e irrinunciabile.
In questa occasione non ci sono state esitazioni. E la Ue, in piena sintonia e convergenza con l’alleato americano, è stata tempestiva e straordinariamente unita nel condannare l’aggressione russa, senza distinguo o condizioni. Ha adottato rapidamente e in maniera progressiva ben quattro “pacchetti” di sanzioni contro la Russia di particolare durezza. Ha deciso (una prima assoluta) di utilizzare fondi del bilancio comune per finanziare l’invio da parte di vari Stati membri di armi all’Ucraina. Ha deciso di accogliere senza condizioni gli ucraini in fuga dal loro paese occupato e sotto le bombe. E ha addirittura concordato uno schema di distribuzione dei rifugiati secondo quote nazionali, sulla base di un meccanismo di solidarietà per anni invocato e mai realizzato sinora. Ha manifestato solidarietà all’Ucraina con un’apertura (comprensibilmente prudente) sulle aspirazioni di Kyiv per una futura adesione alla Ue.
Qualcuno ha osservato che sono stati soprattutto Macron e Scholz a manifestare uno speciale protagonismo con i vari tentativi di avviare una qualche interlocuzione con Putin nella ricerca di una soluzione politica del conflitto. Ma questo non deve sorprendere perché l’attivismo di Francia e Germania è la fotografia dei rapporti di forza all’interno della Ue. Quello che conta è che i leader di Francia e Germania hanno potuto assumere quelle iniziative sapendo di poter contare su una Ue unita e politicamente determinata. E che nessuno in Europa li ha criticati per questo protagonismo.
L’Unione europea aveva dimostrato di saper reagire al Covid in maniera efficace e solidale sia nella fase dell’emergenza che in quella ricostruzione. Stava uscendo dalla fase più acuta della crisi pandemica, e si accingeva a dare attuazione ad una agenda in cui la ripresa dell’economia su basi sostenibili si sarebbe dovuta coniugare con la doppia transizione energetica e digitale. E aveva avviato un faticoso percorso di recupero di protagonismo sulla scena internazionale.
Versailles: difesa, energia, economia
Ora si trova di colpo confrontata con uno scenario radicalmente nuovo e imprevisto. Un conflitto armato nel cuore dell’Europa, la prospettiva di una nuova guerra fredda, conseguenze prevedibili, ancorché difficili da quantificare, sulle prospettive di ripresa dell’economia, sul commercio internazionale e sulle catene del valore, sui bilanci nazionali. Un altro cigno nero, dopo il Covid, destinato a ridisegnare le dinamiche del contesto internazionale, a ridefinire rapporti di forza fra gli attori più significativi e imporre nuove priorità e nuovi obiettivi.
Riuniti giorni fa nella cornice un po’ incongrua del palazzo reale di Versailles, i leader europei hanno cominciato a definire gli assi portanti di una strategia che mira a dotare la Ue di strumenti (solo in parte nuovi) per far fronte agli scenari del dopo conflitto. E hanno individuato per questa strategia tre dimensioni fondamentali, che corrispondono ad altrettante debolezze europee: un rafforzamento delle capacità nel campo della difesa, la riduzione della dipendenza energetica, la realizzazione di una base economica più robusta e resiliente.
Nel campo della difesa è stato assunto l’impegno a spendere di più e meglio, a sviluppare collaborazioni nel campo della capacità militari, a rafforzare la base industriale, ad ampliare la gamma delle missioni e operazioni che la Ue potrà gestire in proprio. Per l’energia l’obiettivo principale è l’eliminazione (ad una data a definire) della dipendenza dalle forniture russe di gas, greggio e carbone, da realizzare con una migliore diversificazione delle fonti di approvvigionamento di energia fossile, con un ulteriore sviluppo delle rinnovabili e dell’idrogeno, e migliorando le capacità di stoccaggio del gas e le interconnessioni elettriche. Per l’economia, l’accento è stato messo sulla necessità di ridurre la dipendenza della Ue sulle materie prime sensibili, sui semi-conduttori, sul digitale, sull’agro-alimentare e sulla salute. Altre ipotesi di cui si era parlato alla vigilia, come quella di un nuovo Next Generation EU destinato a finanziare un ulteriore programma di investimenti su difesa e transizione energetica, si sono rivelate ancora premature.
Da Versailles ai fatti
Le conclusioni di Versailles sono state raggiunte con una convergenza che ha sorpreso molti osservatori. Ma che si spiega anche con la genericità di molti degli impegni assunti. A metà fra il libro dei sogni e una vera e propria “roadmap” per una serie di iniziative da assumere nei prossimi mesi, quelle indicazioni ora dovranno tradursi in decisioni e misure concrete che richiederanno una forte determinazione politica e condizioni di contesto idonee.
Non sarà un compito facile perché il contesto economico, in Europa e nel mondo, rischia di caratterizzarsi per una serie di fattori negativi: ulteriore aumento dei prezzi delle fonti di energia e delle materie prime, aumento dell’inflazione, rischi di ulteriore aumento dei debiti pubblici, riduzione dei volumi del commercio internazionale, e un contesto internazionale ancora più instabile e precario.
Nei prossimi mesi sapremo se e quanto la crisi generata dal conflitto è destinata ad avere conseguenze sulla realizzazione degli impegni assunti in materia di transizione energetica. Ugualmente nei prossimi mesi sapremo se sarà possibile affrontare il tema della riforma della governance economica e delle regole di bilancio nel contesto di generalizzata incertezza generata dal conflitto. E se sarà effettivamente possibile completare i vari cantieri aperti: il “green deal”, una autentica autonomia strategica, il completamento del mercato interno, dell’unione bancaria, dell’unione del mercato dei capitali, e magari l’avvio di una qualche forma di armonizzazione della fiscalità delle imprese. Ma se, come la storia ci insegna, la costruzione europea cresce nelle crisi e grazie alle crisi, questo dovrebbe essere il momento ideale per un nuovo salto di qualità.
Foto di copertina ANSA/US/PRESS OFFICE CHIGI’PALACE/FILIPPO ATTILI