Nei mesi scorsi, più d’una iniziativa è stata presa dalle istituzioni dell’Unione europea, oltre che per manifestare un’effettiva solidarietà all’Ucraina relativamente all’ingiustificata e cruenta aggressione russa, per rafforzare il suo legame con l’Ue. Ma non tutti concordano con questa strategia.
La questione viene qui vista sul piano istituzionale e politico. Il duplice assunto è quello dell’integrazione europea come processo aperto a ogni Stato europeo e della natura pur sempre politica della decisione riguardante l’ampliamento.
Una prima strategia: inclusione
Per molti, la via maestra è quella dell’inclusione nell’Ue, per più d’una ragione. L’Ue è aperta all’adesione di qualsiasi Stato europeo che ne faccia richiesta e rispetti i criteri stabiliti nel corso degli ultimi trent’anni, a partire dal vertice di Copenaghen.
L’Ucraina ha da tempo sancito questo obiettivo nella sua Costituzione, chiarendo nel preambolo che esso è l’unico coerente con l’identità europea del popolo ucraino (cioè con la storia) e con il percorso “irreversibile” che il suo popolo ha indicato (cioè con la volontà della nazione), nonché affidando al Presidente il compito di garantire l’attuazione di tale scelta.
L’Ucraina ha compiuto progressi rispetto ai criteri stabiliti dall’Europa unita, in particolare la democrazia e il rispetto dello stato di diritto e dei diritti umani. Ha adottato misure volte a proteggere il libero commercio. Non è poco quel che si è fatto su entrambi i versanti, pur se per obiettività va detto che vi è ancora molto da fare.
Tuttavia, quella che a molti appare la via maestra è ostacolata, più che dal conflitto in corso, da una diversa valutazione da parte degli Stati membri del quadro costi-benefici che hanno di fronte e forse anche da veti di alcuni di essi. La diversità di vedute tra i paesi membri può manifestarsi all’interno del Consiglio – cui la Commissione si è impegnata a presentare speditamente la richiesta di ammissione dell’Ucraina – attraverso un veto. Esso può essere indotto dal dissenso circa la linea da seguire in questo caso o quella riguardante altri paesi, nei Balcani occidentali, oppure l’approccio finora seguito.
Non ci si può nascondere che, fin dallo scorcio del Duemila, i successivi ampliamenti dell’Ue non hanno dato i risultati sperati sul versante dell’adesione di tutti i nuovi paesi membri ai valori sui quali l’Unione è fondata. Non ci si può nascondere nemmeno, come ammesso dalla stessa Commissione, che i rimedi previsti dai trattati nei confronti delle violazioni dello stato di diritto e dei diritti fondamentali possono risultare inefficaci, se due o più Stati utilizzano in modo strumentale il diritto di voto (e di veto) all’interno del Consiglio.
La stessa volontà di avanzare verso un’Europa più unita, che è da tutti solennemente affermata in alcune dichiarazioni ufficiali, non è confortata dalle misure che alcuni hanno preso, anche recentemente, in occasione del conflitto.
Una via alternativa: la confederazione europea
Trae spunto da questi argomenti la proposta di istituire una confederazione europea, composta dai ventisette Stati membri dell’UE e dagli altri paesi europei che nel corso degli ultimi anni hanno presentato la proposta di adesione. Secondo i suoi sostenitori, questa proposta presenta un duplice pregio: da un lato, quello di creare uno spazio politico comune all’Europa allargata, dall’Atlantico fino al Caucaso, assai suggestivo sul piano simbolico; dall’altro, quello di evitare nuovi ampliamenti in assenza d’una profonda, radicale revisione del diritto di veto.
Purtuttavia, anche questa proposta non è esente da inconvenienti. Vista dall’esterno, non è ciò cui ambiscono i paesi che aspirano a far parte dell’Unione, o almeno non è tutto ciò che essi intendono ottenere. Vista dall’interno, è ritenuta inutile da chi considera necessario e sufficiente coinvolgere quei paesi nel mercato unico, che per decenni ha contribuito a garantire pace e prosperità, nella scia di Montesquieu, ben più sovente ricordato come teorico della contrebalance des pouvoirs, ma che fu tra i primi ad argomentare che l’effetto naturale del commercio è di condurre alla pace. Non è trascurabile, inoltre, la difficoltà di elaborare e approvare una nuova cornice giuridica, mediante una conferenza intergovernativa.
Accordi specifici
Alla luce di questi inconvenienti, se le istituzioni europee vogliono integrare più strettamente l’Ucraina nello spazio giuridico comune, il tema analitico è duplice: accertare quale sia lo strumento più rapido e flessibile, valutare i modi e i margini disponibili per farne uso anche in altri casi.
Riguardo alle prime due soluzioni (inclusione nell’UE e creazione d’una confederazione), le rigidezze connesse con le riforme dei trattati esistenti possono essere evitate mediante un accordo o una serie di accordi (come si è fatto, rispettivamente, con la Norvegia e con la Svizzera) volti a estendere a ogni Stato europeo che ne faccia richiesta sia le regole del mercato, sia quelle che disciplinano alcune politiche pubbliche. Nel novero di tali politiche, vi sono la protezione dell’ambiente e la tutela della salute, entrambe rafforzate nel corso degli ultimi anni. Non vi sono ostacoli, inoltre, all’utilizzo di questo strumento per altri Stati, nei Balcani e nel Caucaso.
Una trasparente indicazione delle opportunità che questo schema politico-istituzionale offre e delle modalità con cui può essere utilizzato – a trattati invariati – può giovare a dissipare dubbi e incertezze. Tempi e modalità del processo devono tenere conto, inevitabilmente, delle difficoltà negoziali che anche una transizione verso assetti migliori può implicare. Ma la decisione sulla strategia da seguire non può attendere, anche per bilanciare -con un’Europa più integrata – le altre grandi aree, America e Cina in primo luogo.
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