Nelle prossime settimane tre dossier europei costituiranno altrettante sfide, o motivi di imbarazzo, per il governo italiano. Si tratta del negoziato che si avvierà nei prossimi giorni sulla riforma delle regole europee in materia di disciplina di bilancio, della questione ancora aperta della ratifica italiana dell’accordo con cui è stato riformato il Mes, e dell’interlocuzione in corso con la Commissione europea sulla attuazione del Pnrr. All’apparenza tre questioni distinte e autonome. In realtà tre dossier strettamente collegati fra loro, che chiamano in causa la credibilità del governo e la sua capacità di coniugare interessi nazionali e obiettivi europei.
Un nuovo Patto di Stabilità
Sulla riforma del Patto di Stabilità mercoledi scorso la Commissione, al termine di un lungo processo di consultazione e di un primo confronto con i governi, ha presentato la sua proposta con tre distinti provvedimenti legislativi. Obiettivo dichiarato della riforma delle regole vigenti (ancorché sospese fino a fine anno) è quello di aggiornare queste regole per renderle più efficaci e più credibili e di assicurare maggiore compatibilità fra i percorsi nazionali di riduzione del debito e di risanamento finanziario e la necessità di garantire adeguati finanziamenti pubblici a sostegno delle transizioni energetica e digitale.
Al di là dei dettagli, l’aspetto più qualificante della proposta è il passaggio da un sistema di regole e obiettivi in principio uguali per tutti (salvo le flessibilità sperimentate nel corso degli anni) ad un sistema che si fonderà su percorsi di riduzione del debito negoziati fra la Commissione e i singoli governi sulla base di alcuni obiettivi condivisi. La Commissione dovrà definire un quadro di riferimento generale e soprattutto «traiettorie tecniche» di riduzione del debito per ogni Paese, e i governi negozieranno con la Commissione dei «piani nazionali strutturali di bilancio».
I Piani nazionali strutturali di bilancio
Questi piani nazionali dovranno contenere non solo gli obiettivi di bilancio, ma anche le misure necessarie per affrontare eventuali squilibri macro-economici, e le riforme e gli investimenti necessari per affrontarli. Questi piani, una volta approvati dalla Commissione e validati dal Consiglio, avranno una durata di quattro anni, ma potranno essere estesi fino a sette anni su richiesta del Paese interessato. I percorsi nazionali di aggiustamento saranno formulati sulla base di obiettivi di spesa pubblica (al netto delle spese straordinarie). E l’evoluzione della spesa pubblica sostituirà il criterio dei saldi di bilancio nella valutazione delle performances dei singoli Paesi. E’ previsto comunque un impegno di riduzione minima del debito pari allo 0,5% del Pil. E saranno anche previste varie clausole di salvaguardia generali (come l’attuale escape clause) o specifiche per Paese in relazione a circostanze speciali.
Si tratta di una riforma che modifica il quadro esistente in maniera assai radicale, pur mantenendo i limiti di riferimento del 3% per i deficit di bilancio e del 60% per i debiti pubblici. Una riforma che dovrebbe assicurare una maggiore titolarità (ownership) dei governi nella definizione delle politiche di bilancio e nella scelta delle riforme da attuare. Ma che di fatto prevede ampi margini di discrezionalità per la Commissione, e l’utilizzo dello strumento della analisi di sostenibilità dei debiti molto discusso e controverso per la sua scarsa trasparenza e oggettività.
Difficile a questo stadio rimettere in discussione l’impianto complessivo della riforma. Ma il governo dovrà vigilare sui dettagli della proposta, magari con un accorto sistema di alleanze, per evitare che nel corso del negoziato siano introdotti elementi di rigidità o target quantificati di riduzione del debito difficilmente compatibili con la situazione delle nostre finanze pubbliche. Con la consapevolezza che, in assenza di un accordo entro fine anno, verrà meno la clausola sospensiva e torneranno in vigore le regole vigenti attuali (una soluzione che forse non dispiacerebbe ad alcuni Paesi frugali).
La mancata ratifica del Mes
Il secondo problema che il governo dovrà affrontare a breve è quello della ratifica della riforma del Meccanismo Europeo di Stabilità. Quel MES tanto ingiustamente criticato in Italia, che era stato creato nel 2012, con un capitale iniziale sottoscritto di circa 700 miliardi di euro, con la funzione di concedere assistenza finanziaria (con prestiti sottoposti a determinate condizioni) a Paesi membri con difficoltà di accesso ai mercati finanziari (ma con debito pubblico sostenibile). E che successivamente era stato riformato nel 2021 (con un accordo sottoscritto anche dal Governo italiano) per prevedere la possibilità per il MES stesso di fornire una rete di sicurezza finanziaria (un backstop) al Fondo di Risoluzione comune per le banche. Di fatto una ulteriore garanzia della possibilità di intervenire, con uno strumento comune, per contenere i rischi di contagio nel caso di crisi bancarie.
L’accordo su questa parziale riforma è stato ormai ratificato da tutti i Paesi membri dell’Eurogruppo con l’eccezione dell’Italia. E senza la ratifica italiana l’accordo non può entrare in vigore. Rinviare ulteriormente la ratifica da parte italiana, o pensare di poterla condizionare ad eventuali fantomatiche concessioni da ottenere ad esempio sulla riforma del Patto di Stabilità, avrebbe come unico risultato di indebolire ulteriormente la credibilità del governo e del Paese. Anche perché un MES riformato e operativo potrebbe rivelarsi particolarmente utile in una fase in cui si torna a paventare il rischio di crisi bancarie (magari non sistemiche ma di singole banche).
Le modifiche al Pnrr
Infine il terzo dossier su cui il governo dovrà dimostrare la credibilità del sistema Paese Italia è quello della attuazione delle misure e delle riforme del Pnrr. Su questo non c’è molto da aggiungere a quello che è stato detto e scritto in queste settimane. La Commissione si è dichiarata disponibile a considerare eventuali richieste del governo di modifiche del Pnrr, a suo tempo presentato dal precedente esecutivo, ma non a prevedere una estensione del termine del 2026 per il completamento dei progetti previsti nel Piano.
Al governo tocca oggi di decidere rapidamente, e una volta per tutte, se intende utilizzare tutte le risorse del NGEU (ivi comprese quelle sotto forma di prestiti), indicare quali progetti ritiene di poter portare a termine e quali pensa di trasferire su altre fonti di finanziamento (ad esempio sui fondi strutturali europei), e adottare anche quelle riforme che sono pur sempre parte del Pnrr. Una mancata attuazione degli impegni assunti con il Pnrr avrebbe effetti reputazionali disastrosi sul sistema Paese e sul governo, ma anche ripercussioni negative sulle prospettive di crescita del Pil italiano.
Su questi tre temi i margini per il governo sono estremamente stretti. E le scelte da fare per garantire tutela di interessi nazionali e coerenza con obiettivi condivisi in sede europea suggeriscono di negoziare la riforma del Patto di stabilità in maniera costruttiva e senza veti o richieste irrealistiche (come il ripristino di una qualche forma di esenzione di alcune categorie di investimenti dal calcolo del deficit); di ratificare senza ulteriori indugi, e senza porre condizioni o contrapartite la ratifica del MES; e di dare attuazione a quegli impegni previsti dal con il PNRR che saranno ritenuti tuttora realizzabili, sulla base di un calendario da concordare rapidamente con la Commissione.
Foto di copertina EPA/OLIVIER HOSLET