Il massiccio intervento pubblico nell’economia americana, lanciato in risposta allo scoppio della pandemia nella primavera del 2020, avviene nel contesto di un più ampio ripensamento delle politiche post-industriali che hanno caratterizzato le economie occidentali da numerosi decenni. La finanziarizzazione, spinta da processi di deregulation e globalizzazione in cui i governi avevano gradualmente abdicato le proprie responsabilità nel nome di una libertà di mercato che ha anteposto gli obiettivi finanziari all’economia reale, ha avuto effetti devastanti per le classi medie e basse.
Eppure, le istituzioni pubbliche si erano convinte che non ci fossero alternative al mondo neoliberale, non solo per via della difficoltà di contrastare l’ideologia dominante, ma anche perché il modello occidentale sembrava rispondere a importanti obiettivi geopolitici: la presunta diffusione di un modello democratico e la possibilità di mantenere l’influenza politica attraverso i mercati e le istituzioni finanziarie internazionali.
Dal declino annunciato al nuovo cambiamento di paradigma
Oggi le falle di questo sistema sono diventate evidenti ai più, ma la strada del cambiamento è stata a dir poco accidentata: ci è voluta la rivolta populista che ha prodotto la presidenza di Donald Trump per costringere le istituzioni a ripensare le politiche commerciali che avevano innescato una corsa al ribasso, e a sdoganare il ritorno degli strumenti di politica industriale. Non era scontato che si sarebbe cambiato, ma in un certo senso era obbligatorio: senza una raddrizzata, gli Stati Uniti – e l’Occidente tutto in un certo senso – avrebbero visto l’inevitabile proseguirsi del proprio declino, con una società sbilanciata, di fatto meno democratica, e di conseguenza meno in grado di proiettarsi a livello internazionale, lasciando la porta aperta all’ascesa incontrastata di nuove potenze, piuttosto che a quel misto di competizione e cooperazione che comincia a profilarsi per i prossimi anni.
Si deve, quindi, in qualche modo ringraziare coloro che hanno posto i temi difficili, sfidato l’ortodossia da sinistra e da destra, perché hanno allargato il dibattito e lo spettro delle risposte possibili alla situazione senza precedenti che si è presentata nel 2020: una pandemia che non solo avrebbe costretto tutti a fermarsi per mesi alla volta obbligando i governi a sostenere direttamente i cittadini e le imprese, ma che avrebbe anche sottolineato in modo drammatico i problemi emersi negli ultimi decenni per l’economia reale: dalla delocalizzazione della produzione, all’insufficiente capacità dei sistemi sanitari, ai buchi nella rete di protezione sociale.
Gli Stati Uniti tracciano una nuova strada da percorrere
Ora si può dire che gli Stati Uniti hanno iniziato una svolta epocale: lo Stato interviene per garantire la produzione dei presidi medici fondamentali; si incoraggia il reshoring e l’accorciamento delle catene di valore nei settori che domineranno la sfida geoeconomica negli anni a venire; si rinnovano gli investimenti nelle infrastrutture; e si punta ad assicurare la supremazia nel campo delle tecnologie più innovative, dove Washington ha deciso che non può rimanere indietro.
Il primo elemento fondamentale è che si sono abbandonate – almeno temporaneamente – le preoccupazioni su come pagare tutto questo. Con spese di oltre il 30% del Pil il deficit e il debito pubblico sono volati, ma piuttosto che farsi limitare dalle paure che hanno dominato dagli anni Ottanta in poi, si è semplicemente preso atto della realtà: che un paese sovrano, con una banca centrale funzionante, può spendere quanto vuole, con il solo limite di dover spendere bene, e gestire eventuali squilibri come l’inflazione eccessiva.
Spendere tanto ma spendere bene nel post-globalizzazione
Il tema è stato individuato in modo efficace da esponenti del MMT come la professoressa Stephanie Kelton, ma a livello teorico sarà molto difficile prevalere; già ora i repubblicani mainstream e anche i democratici centristi frenano sull’ultimo (grande) tassello del programma Biden, il pacchetto di spese sociali Build Back Better. Comunque, a livello pratico la battaglia è stata in buona parte vinta; si è dimostrato che quando c’è un’emergenza si spende il necessario, e la realtà è che nessuno ha bisogno di ripagare mai il debito pubblico. Infatti a livello assoluto quello americano aumenta da 63 anni di fila, certamente senza aver compromesso la crescita a lungo termine.
Come sottolineato da Giorgio Arfaras, c’è una fazione che si accontenta di provocare una crescita reale superiore a quella del debito, senza arrivare ad abbracciare l’idea di moneta senza debito – in realtà introdotta negli Usa già ai tempi di Abramo Lincoln; invece le posizioni dei falchi, che ricominciano ad alzare la voce, avranno un effetto limitato: le spese approvate nell’ultimo periodo dureranno per parecchi anni, e l’impegno di finanziare maggiormente la ricerca scientifica, la politica industriale e l’innovazione tecnologica non potrà venire meno. C’è ormai una necessità geopolitica da affrontare, la sfida con Pechino; e quando si aggiunge la spinta per affrontare le disuguaglianze strutturali provocate dalle politiche della globalizzazione, si può riconoscere una svolta fondamentale, verso un’America che potremmo definire come post-globale.
Non sarà una passeggiata, in quanto la polarizzazione politica e sociale non accenna a diminuirsi, con rischi anche seri per la tenuta del sistema politico; ma 50 anni dopo il precedente cambio di paradigma, si assiste ad una nuova virata netta, in cui gli obiettivi geopolitici saranno suffragati da una politica economica più solida e resiliente.
Foto di copertina Johannes EISELE / AFP