Negli anni Ottanta e Novanta era l’Europa ad andare in Cina. Ora sarà la Cina ad andare in Europa? La pandemia, le instabilità sui mercati energetici e la trade war tra Pechino e Washington sono solo alcune delle motivazioni che oggi stanno alla base al fenomeno di reshoring di molte attività strategiche. Ispirate da questo fenomeno, le aziende cinesi stanno guardando con attenzione il Vecchio continente come un’occasione di investimento greenfield.
L’impegno della Cina sulla mobilità elettrica
Questa tendenza sembra confermata dai dati. Secondo l’ultimo report congiunto del Mercator Institute for China Studies di Berlino (MERICS) e Rhodium Group gli investimenti cinesi sono in generale contrazione (-22% rispetto al 2021), tranne nel settore delle batterie. “Le aziende cinesi stanno investendo miliardi nella catena di fornitura dei veicoli elettrici in Europa. Sono diventati i principali attori della transizione verde europea”, ha dichiarato Agatha Kratz, che dirige il gruppo di ricerca dedicato alle relazioni Cina-UE.
Proprio il mercato della mobilità elettrica è al centro del fenomeno dei piani di investimento cinesi. Ad aprile la cinese SVOLT Energy Technology Co ha annunciato di aver pianificato l’allocazione di almeno cinque stabilimenti in Europa. Meta privilegiata rimane la Germania, dove SVOLT costruirà anche un impianto di assemblaggio dedicato all’automotive nel Brandeburgo, lo stato che ospita la gigafactory di Tesla. L’azienda punta a una capacità produttiva di almeno 50 gigawattora entro il 2030, sufficienti a produrre circa 100 milioni di celle all’anno che saranno capaci di alimentare oltre un milione di veicoli elettrici con batterie da 40 kilowattora.
Prima di SVOLT è stato il gigante delle batterie CATL ad annunciare la costruzione di uno stabilimento ad Arnstadt, nella Turingia. Le sei linee di produzione previste in Germania si aggiungono al primo stabilimento di Erfurt e all’enorme impianto da 100 gigawattora in Ungheria. CATL, che attualmente è il più grande produttore di batterie al mondo, è stato definito da molti una vera e propria potenza in ascesa nel settore delle automobili elettriche in Europa. Come riporta il documento del MERICS, gli investimenti diretti esteri annunciati dalla Cina nella supply chain delle auto elettriche sono aumentati vertiginosamente, passando dai 605 milioni di dollari del 2016 ai 24 miliardi del 2022. Secondo le stime, le aziende asiatiche avranno occupato il 44% del mercato Ue entro il 2030.
Pro e contro dell’impegno cinese nel reshoring europeo
Facilitate dal mercato dell’Unione, le aziende cinesi del settore avranno un effettivo vantaggio commerciale non appena gli stabilimenti entreranno in completa operatività. A ciò si aggiunge il divieto alla vendita di auto a diesel e benzina a partire dal 2035, una scelta che richiederà una completa riconversione dell’industria automotive europea in tempi rapidi con tutto ciò che essa comporta in termini di risorse umane e tecnologie. Una problematica che non è nuova alla leadership europea, che dal 2019 definisce la Cina un “rivale sistemico” per la poca trasparenza in materia di sussidi e agevolazioni verso le sue imprese all’estero.
La catena di approvvigionamento dei materiali necessari alla produzione delle auto elettriche, però, è complessa. Il ritorno delle attività industriali sul suolo europeo richiede una “regionalizzazione” della filiera difficile da attuare, ma necessaria a una nuova logica di mercato che non può più contare esclusivamente sul vantaggio economico delle attività offshore. Non più affidarsi a un modello di stoccaggio dei materiale “just in time” (lo stoccaggio dei materiali sufficienti a coprire un ordine già convalidato), bensì adottare una logica “just in case”. In altre parole, le imprese che stanno cercando di riavvicinare gli impianti al mercato di destinazione iniziano ora a ragionare in termini di facilità di approvvigionamento dei materiali sulla base di uno stoccaggio capace di sopperire agli imprevisti.
Un tale approccio potrebbe condizionare anche l’operato delle aziende cinesi nell’Unione anche se le dinamiche delle catene di approvvigionamento sono spesso più complesse e le informazioni poco trasparenti. È quanto ha raccontato a Bloomberg il presidente e amministratore delegato di Manuli Rubber Industries SpA Dardanio Manuli nel momento in cui ha realizzato che rientrando dalla Cina e affidandosi ai fornitori UE aveva reso la sua azienda dipendente da una filiera che – in realtà – aveva origine in Ucraina.
Il settore dei semiconduttori
Nel quadro delle tecnologie chiave per l’industria del futuro a zero emissioni rientra anche il discorso sui microchip. Complici le recenti manovre statunitensi per contenere l’espansione cinese in tale ambito, l’Europa è diventata un luogo di interesse per aziende come il gigante taiwanese TSMC, che hanno già annunciato la costruzione di nuovi impianti dedicati ai semiconduttori per il mercato europeo. A ciò si aggiunge uno scrutinio più attento da parte dei decisori europei, che hanno frenato delle acquisizioni ritenute pericolose per la sicurezza nazionale. Tra i casi più eclatanti emerge quello di Wafer Fab, l’impresa di microchip con sede a Newport che era stata acquisita dalla cinese Nexperia. Ora il governo britannico ha chiesto all’impresa asiatica di vendere almeno l’86% delle quote per evitare la fuga di know-how verso la Repubblica popolare. Anche l’acquisizione della Elmos Semiconductor di Dortmund, Germania, è finita in un nulla di fatto a fronte di un intervento diretto del governo tedesco.
L’Italia per ora rimane un approdo lontano per le aziende cinesi, soprattutto quando si tratta di investire in progetti su larga scala e potenzialmente di media-lunga durata. Se si parla di iniziative legate alle componenti strategiche per la transizione energetica, in particolare, lo stivale rimane più un mercato che un nodo industriale da cui far passare la filiera tech di domani. Regno Unito, Francia e Germania rimangono le mete predilette dai capitali cinesi, un orizzonte a cui si è recentemente consolidato il ruolo dell’Ungheria. Ne è un esempio il caso del gruppo Stellantis, che oggi detiene una parte significativa del mercato italiano tanto nel comparto privato che quello dedicato ai veicoli commerciali. SVOLT è ufficialmente entrata nella rosa dei fornitori di batterie al litio con un accordo sulle forniture a partire dal 2025, e altri negoziati sono in corso con i diversi attori coinvolti nella produzione e nell’assemblaggio dei veicoli. Un reshoring con caratteristiche cinesi.
Foto di copertina EPA/ALEX PLAVEVSKI