Le violenze degli ultimi giorni a Baghdad, che hanno visto scontri tra gruppi sciiti rivali, sono l’ennesima prova dell’incapacità del sistema politico iracheno del post-Saddam Hussein di governare. Il rischio di una guerra civile induce a riflettere sull’ultimo capitolo della storia contemporanea irachena iniziato con l’invasione del paese vent’anni fa, ma anche, più in generale, sulla stabilità del Medio Oriente nonché sul presente e sul futuro di una politica verso il sud del mondo da parte di un Occidente adesso impegnato in una guerra ad est.
La frattura sciita
Le elezioni parlamentari irachene dell’ottobre del 2021—importanti perché organizzate a seguito di un movimento popolare di protesta contro la classe politica—sono state seguite da undici mesi di impasse politica, causata principalmente dalla competizione sulla scelta del primo ministro (tradizionalmente di di appartenza sciita) tra due fazioni rivali: una legata al movimento del leader politico e religioso Moqtada al-Sadr, che si distingue per la capacità di mobilitazione delle masse popolari sciite, la seconda comprendente forze partitiche sciite tradizionali, molte delle quali organizzatesi in Iran come opposizione al regime di Saddam Hussein.
Da ottobre in poi i dissapori latenti si sono acuiti trasformandosi in dichiarazioni di aperto dissenso quando ognuno dei due gruppi ha tentato di formare un governo escludendo l’altro. Gli scontri tra milizie armate affiliate alle due forze rivali nel corso dell’ultima settimana hanno spinto il paese sull’orlo di una guerra civile. Anche se le tensioni sembrano adesso attenuate dall’intervento della guida religiosa dello sciismo Ayatollah al-Sistani (incontrato da Papa Franscesco nel corso del suo viaggio in Iraq del 2021), il pericolo di un ritorno alla violenza è reale.
Un sistema politico in crisi
Le frizioni interne al mondo sciita non sono che una delle molte avvisaglie di un sistema politico in crisi. Il sistema consociativo che governa l’Iraq dal 2003 è fondamentalmente comunitario, fondandosi sulla rappresentanza delle tre comunità demograficamente più numerose (Sciiti, Curdi e Sunniti) nelle piu’ alte cariche dello stato (primo ministro, presidente e presidente del parlamento) che presuppone un accordo all’interno delle varie forze componenti sul proprio candidato.
Le rivalità politiche interne a ciascuna comunità e la denuncia sociale del sistema comunitario—e dei partiti che ne hanno tratto beneficio nel corso dei decenni—rendono questo l’accordo sempre piu’ difficile, allungano il processo di formazione del governo e approfondiscono la scollatura tra elite politica (impegnata negli accordi di palazzo) e società irachena. In uno stato dove le forze politiche sono anche armate, al centro di una regione dove le frontiere dell’ influenza politica tra Iran, Turchia, Paesi del Golfo e Israele sono ancora da delineare, l’impasse politica interna rischia di trasformarsi in poco tempo in scontro armato e conflitto.
L’impatto regionale
Ma la crisi non si ferma alle porte dell’Iraq. Un Iraq diviso è un Medio Oriente diviso. Le conseguenze sugli equilibri regionali in Medio Oriente sono importanti. Il conflitto interno allo sciismo iracheno, che per la prima volta l’Iran sembra incapace di mediare, è percepita da Teheran come una seria minaccia alla sua influenza nel mondo dello sciismo Arabo, che attraversa tutta la regione dal Libano, Siria e Yemen, passando per l’Iraq. Lo sciismo iracheno è sempre piu multipolare: si ispira ad autorità religiose che promuovono una visione dell’Islam sciita diversa rispetto a quella promossa dall’Ayatollah Khameney, e intrattiene relazioni con potenze regionali non-sciite, come Turchia e Paesi del Golfo. Un conflitto intra-sciita, o il prevalere di forze sciite non allineate con l’Iran, potrebbe mettere a repentaglio i fragili processi diplomatici avviati tra Iran, Arabia Saudita e rafforzare invece la polarizzazione tra Iran e Israele (che da mesi tenta di rafforzare legami con paesi del Golfo in funzione anti-Iraniania).
La mediazione possibile
Per tutti questi motivi è evidente che Stati Uniti e Europa, anche se impegnati altrove, non possono permettersi di essere solo spettatori della crisi in corso. Adesso che un accordo sul nucleare iraniano sembra ancora possibile—anche grazie alla mediazione dell’Europa— è piu che mai importante operare attivamente in queste direzioni: sostenere il dialogo tra Iran, Arabia Saudita e mondo Arabo; prolungare il cessate il fuoco in Yemen; smussare le tensioni tra Israele e Iran; continuare il processo di cooperazione diplomatica tra paesi del Medio Oriente iniziato l’anno scorso proprio a Baghdad. La stabilità dell’Iraq è condizione perchè questi processi in corso possano proseguire.
L’Europa ha bisogno di un Iraq e di un Medio Oriente stabili. L’ultimo decennio di conflitti nel vicinato meridionale dell’Europa hanno scatenato crisi umanitarie, aggravato la crisi climatica in corso, provocato flussi migratori che hanno avuto un impatto diretto sulla politica interna degli Stati membri. Con la guerra in Ucraina, la stabilità del Medio Oriente (e della zona del Golfo in particolare) acquista un’importanza strategica crescente come fonte e rotta per la sussistenza energetica.
Tre processi complementari sono possibili e utili per prevenire un ritorno alle violenze in Iraq e rafforzare i processi diplomatici in corso nel piu’ ampio Medio Oriente. Primo, una mediazione politica interna tra forze sciite rivali, già avviata dalle alte cariche dello stato in Iraq in cooperazione con la missione Onu in Iraq (UNAMI). Secondo, il dialogo interreligioso con il sostegno delle autorità religiose come il Grande Ayatollah al-Sistani, volta a creare le condizioni per un compromesso. Infine, l’esplicito sostegno degli Stati della regione alla stabilità dell’Iraq, riconosciuta sin dal summit di Baghdad dello scorso anno come fondamentale per la stabilità della regione stessa.
Foto di copertina EPA/AHMED JALIL