L’allineamento geopolitico fra Golfo, Russia, Cina e India si è plasticamente materializzato Il 26 febbraio: il giorno in cui gli Emirati Arabi Uniti (EAU) si sono astenuti al Consiglio di Sicurezza dell’Onu (di cui sono membri non permanenti per il 2022-23), evitando così di condannare l’aggressione russa dell’Ucraina.
In quel momento, il Golfo post-americano, da anni oggetto di dibattito tra analisti e cancellerie, ha smesso di essere un argomento di discussione – tra realtà e percezione – per entrare, invece, nel regno del tangibile. Per le monarchie, gli Stati Uniti non sono più l’egemone riconosciuto dell’area: l’ordine del Golfo è ormai condizionato dall’equilibrio, in divenire, fra potenze esterne e tra loro rivali. Nella partita dell’equidistanza fra Mosca e Washington, a rischiare di più sono gli Emirati. Ma anche il negoziato per il nucleare con l’Iran.
Il tornante ucraino
Neppure il Golfo è immune dalle implicazioni della guerra che Vladimir Putin ha mosso allo Stato ucraino. E non soltanto perché il Golfo è il perno economico-energetico della macro-regione del Medio Oriente e del Nord Africa. Per l’Arabia Saudita, gli EAU e il Qatar, questa guerra rappresenta già un momento di passaggio in politica estera. Negli anni, le monarchie hanno sviluppato forti legami economici con Mosca: la diversificazione economica in chiave post-oil si è coniugata con quella delle alleanze internazionali. La relazione diplomatica e di sicurezza con Washington, seppur in profonda trasformazione, rimane però insostituibile.
Ecco perché l’Ucraina è e sarà una difficile prova di navigazione attraverso quell’ordine post-americano che Riad, Abu Dhabi e Doha (per citare solo le capitali principali) hanno prima percepito e poi perseguito nelle proprie relazioni internazionali, mediante affari, partnership strategiche e diplomazia culturale. E anche per l’Iran, alleato della Russia, la crisi scatenata dall’offensiva di Putin nasconde delle potenziali insidie, per lo meno temporali. A Vienna, mentre i russi bombardano le città ucraine, gli iraniani stanno infatti negoziando la riattivazione dell’accordo sul nucleare proprio con americani (via europei), cinesi e russi.
Insomma, per le monarchie, il ′tornante ucraino` è una discesa rapidissima e incerta verso un ordine che sta prendendo forma: quello del Golfo post-americano ′a trazione economico-energetica`. Le monarchie ancora necessitano però –e in parte desiderano conservare- il Golfo americano ′a trazione di sicurezza`. Ciò spiega perché, rispetto alla crisi russo-ucraina, le diplomazie di Riad, Abu Dhabi e Doha siano passate, in una manciata di giorni, da un roboante silenzio, a uno strenuo tentativo di equidistanza, fino a offerte di mediazione tra le parti (con un occhio a Occidente).
Reazioni e posizionamenti: Qatar, Arabia Saudita, Kuwait
Nell’area del Consiglio di Cooperazione del Golfo, il Qatar ha comunicato per primo con le parti in conflitto: il 24 febbraio l’Emiro Tamim bin Hamad Al Thani si è intrattenuto con il presidente ucraino Volodymyr Zelensky e con Putin. Nell’estate del 2021, Doha è stata al centro, diplomatico nonché logistico-umanitario, del convulso ritiro di Stati Uniti e Nato dall’Afghanistan tornato ai talebani.
Il silenzio dell’Arabia Saudita è stato rotto, al più alto livello, solo il 3 marzo, quando il principe ereditario (e ministro della Difesa) Mohammed bin Salman Al Saud ha sentito Putin e poi Zelensky. In quell’occasione, Riad si è detta “pronta a mediare”. In parziale controtendenza il Kuwait. Pur senza mai citare l’aggressione russa (definita “avanzamento”), il piccolo emirato ha però rigettato, il 24 febbraio, “l’uso o la minaccia dell’uso della forza”, invitando a “rispettare l’indipendenza e la sovranità dell’Ucraina”. La differenza è tragicamente semplice: anche il Kuwait ha subito un’invasione, quella dell’Iraq di Saddam Hussein nel 1990.
Gli Emirati Arabi fra Mosca e Washington
Stavolta, il tradizionale pragmatismo degli emiratini potrebbe non bastare a bilanciarsi tra la partnership strategica con i russi e la relazione speciale con gli statunitensi. “Crediamo che prendere posizione conduca solo a più violenza”, aveva scandito Anwar Gargash, oggi consigliere del presidente, dopo l’astensione in Consiglio di sicurezza. In parte, c’è già stato però un riposizionamento. Il 2 marzo, gli Emirati hanno votato sì alla risoluzione non vincolante dell’Assemblea Generale (che “deplora” l’invasione russa); il principe ereditario di Abu Dhabi Mohammed bin Zayed Al Nahyan ha sentito Putin e Zelensky e gli Emirati hanno approvato l’indagine sui crimini di guerra russi in Ucraina presso il Consiglio diritti umani dell’Onu (4 marzo), inviando aiuti umanitari per Kiev.
Dietro le mosse emiratine sull’Ucraina, c’è anche il dossier Yemen. Infatti, l’astensione è probabilmente servita agli Emirati per ottenere il sì della Russia all’embargo sulle armi contro l’intero gruppo degli houthi in Yemen, lanciando un messaggio alla presidenza Biden che ha fin qui stoppato la designazione degli houthi come terroristi. Tuttavia, preservare la relazione di sicurezza con Washington è più che mai imprescindibile: gli Usa hanno appena dispiegato la USS Cole e alcuni F-22 a protezione di Abu Dhabi, dopo i ripetuti attacchi missilistici degli houthi dallo Yemen.
Il nodo del nucleare iraniano
L’escalation di Putin si è già intrecciata con l’attesa conclusione dei negoziati sul nucleare iraniano. Infatti, la Russia chiede ora garanzie scritte affinché le sanzioni economiche non si applichino alla cooperazione commerciale e militare fra Mosca e Teheran. Il Joint Comprehensive Plan of Action (JCPOA) dovrebbe essere gradualmente riattivato: l’opzione forse ′più facile` per guadagnare tempo e chiudere, per un po’, almeno un fronte di crisi. Anche se missili e droni rimarranno fuori dall’intesa, come nel 2015. In un’intervista americana, MbS ha appena dichiarato di non volere “un accordo debole”, ma che per Arabia e Iran è meglio “coesistere”.
Per le monarchie dell’area, coesistere sembra dunque la parola-chiave del momento: gli equilibri regionali e internazionali sono contemporaneamente in gioco. Ora che il Golfo post-americano è più che mai realtà, la coesistenza intra-Golfo, quella fra Riad e Teheran -ma anche dentro il CCG – sembra un’opzione più praticabile di ieri. Soprattutto se re ed emiri dovessero continuare lo slalom fra vecchi e nuovi alleati, assai rischioso in un contesto di aperta contrapposizione internazionale.