Una delle idee più radicate nell’immaginario neozelandese è che l’ex colonia britannica sia fondata sull’eguaglianza dei suoi cittadini. Forse anche per questo, in un momento storico in cui si registra un passo indietro in tante democrazie liberali, la terra della “lunga nuvola bianca” non sembra vivere quel malessere così diffuso altrove.
Eppure il voto del prossimo 14 ottobre si inserisce in una cornice inedita, che tradisce una richiesta di cambiamento difficile da pronosticare anche solo un anno fa. Dopo che la Prima ministra Jacinda Ardern ha lasciato anticipatamente la carica all’inizio dell’anno, le sorprese del 2023 potrebbero non essere finite.
Il sistema elettorale neozelandese
A parte una breve parentesi, il sistema elettorale della Nuova Zelanda che ha segnato il Novecento è stato quello denominato first-past-the-post, di matrice britannica. In base a questo modello maggioritario, tuttora utilizzato in diversi Paesi anglosassoni, il territorio nazionale viene suddiviso in collegi uninominali: il candidato che si presenta in un collegio e ottiene più voti vince e accede alla Camera.
La storia elettorale del Paese delle due isole cambia nel 1992. A partire dagli anni Ottanta, il sistema tradizionale viene messo in discussione a causa di alcune criticità, delle quali la più significativa riguarda la mancanza di rappresentatività. Infatti, premiando i partiti più radicati e strutturati, il first-past-the-post determina un forte svantaggio per le forze politiche minoritarie. A seguito di un lungo dibattito, viene istituito un referendum per l’anno olimpico: i cittadini neozelandesi allora votano per abbandonare il vecchio e abbracciare un nuovo meccanismo.
L’attuale mixed-member-proportional, noto nel Regno Unito come Additional member system è figlio di quel voto e di un secondo referendum indetto l’anno successivo, in cui la maggioranza ha votato per questo modello. Le nuove regole prevedono che ogni elettore possa usufruire di due voti, uno per il candidato del collegio uninominale e uno per il partito. I 120 seggi corrispondono alla somma tra i 72 destinati ai vincitori dei collegi uninominali e i 48 assegnati in base ai voti ricevuti dalle forze politiche. Tra i primi 72 ve ne sono 7 dedicati in via esclusiva alla minoranza maori.
La scelta di Ardern e il dibattito pubblico
Dopo avere guidato il Paese in alcuni dei suoi momenti più drammatici, la leader del Partito laburista Jacinda Ardern a gennaio ha deciso di fare un passo indietro. La politica di Hamilton ha affermato pubblicamente di non avere “più energie” per ricoprire il ruolo che l’ha impegnata per più di cinque anni. Le dimissioni hanno aperto un vivace quanto effimero dibattito sul burnout e più in generale sulle condizioni di salute di chi fa politica. Il gesto di Ardern è stato comunque interpretato come un momento spartiacque, venendo accolto in maniera positiva da molti colleghi a livello internazionale.
La decisione della Prima ministra ha inoltre sollevato un altro dibattito, incentrato sull’esperienza delle donne in politica e sulle leadership femminili. Se la Nuova Zelanda è uno dei Paesi più progressisti sul fronte del genere, è vero che anche qui sono presenti una serie di ostacoli, dai bias di genere nella copertura dei mass media alla violenza misogina – su cui si rileva una crescita negli ultimi tempi – che la società e la politica neozelandese devono ancora affrontare.
Nuovo scenario, vecchi problemi
A prendere il posto di Jacinda Ardern è stato Chris Hipkins, uno dei principali architetti delle policies che hanno segnato il mandato, nonché uno dei politici più vicini alla dimissionaria, che come lei ha svolto la funzione di consigliere per l’ex Prima ministra Helen Clark. Prima di ricoprire altre cariche di prestigio, la figura di Hipkins è stata in particolare associata all’efficace risposta neozelandese alla pandemia, basata su una strategia di eliminazione del virus e che ha limitato molto i tassi di mortalità nelle due isole.
Ora però quella stagione si è conclusa e i cittadini neozelandesi si confrontano con uno scenario mutato, anche se al centro dell’attenzione pubblica si mantengono alcune problematiche. Su tutte, il costo della vita, che a causa dell’aumento dell’inflazione nell’ultimo anno sta impattando e creando delle difficoltà a una parte sempre più ampia della popolazione. Una crescita dei prezzi così elevata non si registrava dagli anni Ottanta, incidendo sul costo di beni di larga fruizione, di generi alimentari, degli alloggi e non ultimo del carburante.
Non una novità in Nuova Zelanda, dove le case sono storicamente costose e l’offerta non riesce a incontrare la domanda, la questione abitativa è forse quella più spinosa. Nonostante il governo laburista abbia cercato di fronteggiare la situazione investendo in un piano per nuove abitazioni, il problema non si è risolto e continua a essere in cima alle preoccupazioni nazionali.
Promesse di cambiamento: dove si scontrano i partiti
Il governo in carica è stato chiaramente individuato come il primo responsabile dell’attuale malessere. Proprio perché questa situazione affonda nelle condizioni materiali, il grande antagonista dei laburisti, il Partito nazionale, ha costruito una campagna elettorale quasi monotematica, a partire dallo slogan “Questa elezione è tutta sull’economia”. Mentre il Labour ha continuato a puntare sull’intervento pubblico come argine ai prezzi, il leader dell’opposizione, Christopher Luxon, ha promesso di riportare la Nuova Zelanda in carreggiata attraverso un piano di tagli alla spesa statale e sgravi fiscali.
Date le premesse, la strada sembrerebbe spianata. Tuttavia, negli ultimi mesi il vero protagonista dei sondaggi non è stato il Partito nazionale ma uno dei cosiddetti “minori”. Stiamo parlando di Act New Zealand, guidato da David Seymour. La corsa di Seymour è iniziata quando la forza politica era nella periferia delle intenzioni di voto, laddove oggi è circa il 10% dell’elettorato a posizionarsi sulle sue proposte. La piattaforma su cui si muove Act è di ispirazione neoliberale e reazionaria, dal punto di vista economico (minor intervento dello Stato) e sociale (maggiori misure securitarie per contrastare il crimine).
Un capitolo a parte è quello rappresentato dalle politiche di co-governance, profondamente osteggiate sia da Act che da New Zealand First, partito populista che si staglia su percentuali più basse rispetto al competitor. In questi anni l’esecutivo ha dato il via a una serie di percorsi che nelle migliori delle ipotesi dovrebbero giungere a un diverso sistema di condivisione del potere, in primo luogo sulle risorse naturali, riconoscendo l’approccio coloniale nei confronti della popolazione maori, che sta ottenendo un più ampio spazio di rivendicazione.
Un’altra tematica polarizzante, rimasta inaspettatamente in disparte in questa campagna elettorale, è quella dell’emergenza climatica. Nonostante gli eventi estremi che nel 2023 si sono abbattuti sulla Nuova Zelanda, i piani di mitigazione non sono emersi al centro della scena, non fosse per la forza politica che in questa campagna vede la propria ragion d’essere, i Verdi. In compenso, si è levata in direzione contraria la voce di uno degli attori storici dell’influenza politica neozelandese, gli agricoltori, che si sono riuniti in un coro di protesta contro le politiche di tassazione climatica predisposte dall’esecutivo Ardern dal 2021. Oggi rappresentano una parte minoritaria, ma vista la crescita dei partiti “terzi” potranno risultare anche loro decisivi.
Il voto in Nuova Zelanda: uno schiaffo all’establishment?
Le linee di faglia in vista del voto di sabato sono numerose, almeno quanto l’incertezza che si respira nei diversi partiti. Il Partito nazionale parte in vantaggio nei sondaggi, intorno al 35% e quindi con un vantaggio di dieci punti percentuali sui rivali laburisti, ma è viva la possibilità che abbia bisogno di un supporto, strutturale o esterno, per governare il Paese.
Il clima di transizione comprende anche la politica estera. Se si insedierà un esecutivo conservatore questo ribalterà lo scenario regionale rispetto a qualche anno fa, dato che a Canberra governano i laburisti. Anche a fronte di una parentesi di avvicinamento a bassa intensità a Pechino, i rapporti di forza con gli Stati Uniti sono rimasti e rimarranno tali anche nel prossimo periodo.
Forse a fare notizia sarà, più che la sconfitta dei laburisti, il fatto che i due partiti centrali dello spettro politico potrebbero registrare un record in negativo di consensi. A essere in gioco non sono solo le condizioni dei cittadini neozelandesi ma gli ideali stessi della Nuova Zelanda: se l’insoddisfazione è una indiscussa forza motrice della storia, trovare qualcuno che trasformi le aspettative in realtà è un passo altrettanto importante. E di aspettative ce ne sono eccome.
Questo articolo è a cura di Alberto Pedrielli, direttore de Lo Spiegone
Foto di copertina EPA/BEN MCKAY AUSTRALIA AND NEW ZEALAND OUT