L’ultimo decreto del governo ungherese, quello entrato in vigore il 15 settembre scorso, introduce una stretta sull’interruzione di gravidanza, l’obbligo per i medici di fornire alle donne in attesa la prova “chiaramente identificabile delle funzioni vitali del feto”. Una prova che viene fornita dal battito fetale o da un’ecografia cardiaca. Il principio che sta alla base di tale disposizione è che il battito cardiaco è il segno della vita, anche nel feto, e che le donne ungheresi dovranno sentire questo battito prima di procedere all’interruzione della gravidanza.
Due barricate a confronto
Sentito dall’Afp alla vigilia dell’entrata in vigore del decreto, il portavoce di Amnesty International Ungheria, Áron Demeter, si è espresso prevedibilmente in modo molto critico nei confronti di questa norma. Egli ha infatti parlato di “preoccupante declino” e di decisione “presa senza alcuna consultazione” che “renderà più difficile l’accesso all’aborto e traumatizzerà più donne che si trovano già in situazioni difficili”.
Anche sui social ci sono state reazioni da una parte e dall’altra: i filogovernativi e l’estrema destra hanno espresso soddisfazione per il passo compiuto dall’esecutivo e tra gli ultraconservatori c’è chi ha sottolineato il carattere “storico” di questa norma. Per Dóra Dúró, deputata del partito – appunto di estrema destra – Mi Házank Mozgalom (MHM), si tratta di un’iniziativa “degna di un paese cristiano”. La medesima ha ringraziato le organizzazioni pro-vita per il loro sostegno.
Di marca chiaramente opposta le reazioni di quante e quanti considerano questa norma un’involuzione, un attacco alla piena libertà delle donne di decidere se portare avanti una gravidanza o meno. Va detto che la politica concepita e portata avanti dal governo Orbán in ambito famigliare sembra proprio corrispondere all’impegno di destinare le donne a un ruolo da società patriarcale: casa, figli (auspicabilmente quattro a testa, per aiutare la patria a uscire dalla crisi demografica in cui si trova) piuttosto che aspirazioni carrieristiche. Questa è una delle accuse che gli ambienti progressisti della società civile rivolgono all’esecutivo.
Non basta una donna
Non crei illusioni il fatto che l’attuale capo di stato ungherese è una donna, la prima della storia del paese a ricoprire tale ruolo. Infatti, Katalin Novák, è una fedelissima di Orbán; già ministra senza portafoglio degli Affari Familiari, si considera aperta sostenitrice della “famiglia tradizionale” e nemica delle “ideologie di genere”.
Da quando Orbán è al potere, ininterrottamente dal 2010, il paese ha fatto dei grandi passi indietro sul piano dei diritti civili. Tale situazione viene stigmatizzata e denunciata dalla Commissione europea, dalle organizzazioni ungheresi e internazionali attive sul fronte dei diritti. Com’è noto, non se la passano bene la stampa, il mondo accademico e le scuole (con insegnanti sottopagati e privati di libertà di movimento). Non sono tempi facili nemmeno per la magistratura, per la comunità Lgbtq e per le donne che in Ungheria hanno non poca strada da fare verso una prospettiva di parità di diritti. Tra l’altro non bisogna dimenticare che con Orbán, Budapest ha respinto la ratifica della Convenzione di Istanbul in quanto “basata su ideologie di genere estranee ai principi governativi”. Agli occhi dell’esecutivo, chi non concorda con tali posizioni non è un vero ungherese legato ai valori patri.
Una minaccia sistemica per l’Unione
Di recente il Parlamento europeo ha approvato a larga maggioranza il rapporto in cui l’Ungheria viene definita una “minaccia sistemica” ai valori fondanti dell’Ue, oltre che “un regime ibrido di autocrazia elettorale”. Il Parlamento ha, dunque, chiesto l’intervento della Commissione e del Consiglio. Lega e Fratelli d’Italia hanno votato contro, riconoscendosi evidentemente nella politica portata avanti da Viktor Orbán e dai suoi più stretti collaboratori.
Non è difficile immaginare che l’iniziativa del Parlamento europeo venga bollata dal governo ungherese come l’ennesimo attacco della tecnocrazia liberale che egemonizza Bruxelles. Contro di essa, Orbán immagina una risposta basata sulla saldatura di forze conservatrici e di ispirazione cristiana che si impegnino a divenire non l’alternativa, ma il futuro dell’Europa.
Una prospettiva inquietante che per i cosiddetti sovranisti corrisponde a una sorta di liberazione a favore delle identità e libertà nazionali. Ci sono in questo molta propaganda e retorica – una retorica malata, certo, ma tutt’altro che priva di sostenitori, purtroppo.
Foto di copertina EPA/OLIVIER HOSLET