Sullo sfondo di una disastrosa e apparentemente inarrestabile spirale negativa principiata nel 2019, quando la valuta nazionale iniziò progressivamente a svalutarsi, il Libano si trova nuovamente intrappolato in un rovinoso stallo politico. A distanza di tre mesi dalle elezioni parlamentari (le prime tenutesi dopo la rivoluzione dell’ottobre 2019 e l’esplosione del porto di Beirut dell’agosto 2020), nulla sembra essere cambiato.
L’eredità delle elezioni
Sebbene i risultati elettorali non abbiano rappresentato un mutamento drastico nello status quo, essi hanno pur sempre inaugurato un nuovo corso nella politica libanese, infrangendo il monopolio della rappresentanza politica detenuto dai partiti tradizionali e istituzionalizzando l’eredità politica della rivoluzione con l’elezione di 13 candidati indipendenti: due eventi senza precedenti e dunque significativi poiché occorsi in un sistema deliberatamente costruito per conservare il potere nelle mani delle elite e dunque per impedire una tale possibilità. Tuttavia, le consultazioni non possono comunque dirsi una vittoria delle cosiddette ‘forze del cambiamento’. Parimenti, sarebbe poco lungimirante affermare – come molti hanno fatto all’indomani della pubblicazione dei risultati – che si tratti di una sconfitta di Hezbollah.
Per quanto l’alleanza guidata dal duo sciita Hezbollah-Amal – che include fazioni cristiane, armene e druse – benché abbia perso la maggioranza in Parlamento, essa rimane comunque il più ampio blocco parlamentare. A ben guardare, inoltre, sono le componenti non sciite della coalizione ad aver registrato le peggiori performances. Del resto, come dimostrato dalla rielezione di Berri a speaker del Parlamento, il partito di Dio non necessita di una maggioranza parlamentare per penetrare il sistema e mantenere la sua egemonia.
Tra gli alleati, colpisce in particolare la scarsa prestazione del cristiano Free Patriotic Movement del presidente Aoun che ha perso voti e seggi a fronte di un’impressionante crescita ottenuta dalle cristiane Forze Libanesi di Geagea, opposte ad Hezbollah e sostenute dai sauditi. Sebbene questo risultato incida significativamente sugli equilibri intra-comunitari (rendendo le FL il primo partito cristiano e, dunque, sfidando la leadership finora indiscussa del FPM), la vittoria apparente di Geagea non sembra potersi materializzare politicamente. La rielezione di Berri, per quanto con la più esigua maggioranza mai vista, e le consultazioni per la designazione del nuovo primo ministro hanno già mostrato l’incapacità delle FL di costruire una larga coalizione e quindi di influenzare concretamente l’esecutivo.
Nel campo sunnita, il ritiro dalla politica di Saad Hariri, pur non avendo sensibilmente condizionato l’affluenza, ha tuttavia mostrato interessanti tendenze interne alla comunità. Nessuna leadership sunnita alternativa è emersa, ma il voto sunnita (occorre comunque ricordare il boicottaggio elettorale dei sostenitori dell’ex premier) è stato disperso tra i candidati indipendenti e nuove molteplici leadership locali, decretando una frammentazione politica interna senza precedenti.
Rappresentanza comunitaria frammentata
La rappresentanza politica delle comunità appare dunque estremamente frammentata con l’eccezione rilevante del fronte sciita ancora saldamente nelle mani di Hezbollah e Amal. I gruppi indipendenti hanno sicuramente riportato una grande vittoria, registrando ottimi risultati in tutto il Paese e, dunque, dimostrando la disaffezione diffusa verso la vecchia classe politica. Oltre ad avere un problema di coesione interna, che rende la creazione di un fronte di opposizione unito praticamente impossibile, gli indipendenti si trovano tuttavia intrappolati in un dilemma di coerenza.
Dal momento che il Parlamento è diviso in molteplici gruppi, nessuno dei quali avente la maggioranza, gli indipendenti dovranno presto decidere se rimanere coerenti con la loro impostazione “purista”, contribuendo tuttavia alla paralisi istituzionale, o se – per costruire una maggioranza – scendere a patti e coalizzarsi con partiti tradizionali come le FL, che incarnano tuttavia quello stesso potere settario che vogliono abbattere.
Un’interpretazione realista delle elezioni
Per quanto le urne abbiano rivitalizzato lo spirito della thawra, il successo degli indipendenti deve, dunque, essere contestualizzato. Malgrado risultati talvolta deludenti, le forze politiche tradizionali controllano ancora il 90% del Parlamento. La loro popolarità dimostra che i loro consueti strumenti di mobilitazione hanno ancora rilevanza. Del resto, patronage e clientelismo politico sono ancor più politicamente redditizi: il collasso economico e le conseguenti multiple crisi che affliggono il Paese hanno, infatti, reso molti Libanesi sempre più dipendenti dalle comunità settarie.
Sullo sfondo di un Paese sempre più povero e prossimo al collasso, le elezioni hanno consegnato un parlamento frammentato e polarizzato dove l’identificazione di una maggioranza politica risulta problematica. Nel migliore dei casi, i partiti saranno in grado di creare maggioranze fluide, per temi. Nel peggiore, il Libano sarà bloccato nell’ennesimo stallo politico. La formazione del governo sarà, dunque, complicata e faticosa, caratterizzata da estenuanti contrattazioni i cui i partiti si affanneranno a settare l’equilibrio di potere in loro favore e a massimizzare la loro quota nell’esecutivo.
Tale sfibrante processo sarà inoltre inevitabilmente connesso alle elezioni presidenziali. Se entro il 1° novembre un nuovo presidente non sarà stato ancora designato (eventualità molto probabile), il consiglio dei Ministri – in conformità alla Costituzione libanese – dovrà assumere i poteri presidenziali; i partiti sono, quindi, perfettamente consapevoli che al nuovo governo potrebbe essere concesso un pieno potere esecutivo, il che alza ulteriormente la posta in gioco.
Lo stallo economico
Il rischio di uno stallo politico si traduce inevitabilmente in un potenziale vuoto nelle posizioni di leadership e dunque in un’assenza possibilmente fatale di riforme. Tuttavia la catastrofe sociale ed economica libanese sta raggiungendo livelli insostenibili. È quanto mai urgente il bisogno di lanciare un piano di ripresa economica che mitighi l’impatto della guerra in Ucraina e affronti le cause delle crisi deliberate e sclerotizzate del Paese, crisi che hanno condannato più dell’80% della popolazione a vivere al di sotto della soglia di povertà, in quella che la Banca Mondiale classifica come una delle tre crisi più gravi a livello globale dalla metà del XIX secolo. Il nuovo governo dovrà raggiungere un accordo finale con il Fondo Monetario Internazionale per un pacchetto di salvataggio, inevitabilmente subordinato alla realizzazione di un insieme di riforme a lungo rimandate.
Tuttavia, tale accordo non può dirsi sufficiente per costruire un’economia sostenibile, equa e inclusiva. Il costante peggioramento delle condizioni umanitarie nel Paese richiede anche l’indifferibile attuazione di un’ambiziosa politica di protezione sociale. Tuttavia, al momento, il contesto politico necessario alla sua realizzazione semplicemente non esiste. Di conseguenza, il Libano rischia di rimanere bloccato, nella migliore delle ipotesi, in un cattivo equilibrio, aggrappandosi – come finora – alla resilienza della sua società civile e al sostegno economico della diaspora per sopravvivere; altrimenti, il rischio è quello di un’implosione, con un violento scoppio della rabbia sociale che potrebbe sfociare in tensioni e violenza.
È tempo di un cambio generazionale
In assenza di una maggioranza assoluta e in un sistema consociativo come quello libanese – dove il processo decisionale si fonda sul consenso – qualsiasi fragile maggioranza si rivelerà inutile e fonte di un deleterio stallo sulle questioni più divisive (come la formazione del governo, l’elezione del presidente, i negoziati con il FMI, la demarcazione marittima con Israele, le riforme strutturali). Così, l’iniziale clima celebrativo – successivo alla convinzione che una breccia fosse stata aperta in un sistema fino ad ora infrangibile – si scontra con la triste consapevolezza che i postumi delle elezioni potrebbero rivelarsi piuttosto nefasti per il futuro.
Per salvare il Libano da questo disastro colposo e trasformarne veramente il sistema politico, occorre che il Paese faccia finalmente i conti con il proprio passato e si liberi di quella stessa elite che ha controllato e infestato la politica libanese dalla fine della guerra civile nel 1990. Affinché ciò avvenga, è necessario costruire un’alternativa politica. Queste elezioni ci hanno insegnato che non basta scendere in piazza e protestare, ma è necessario coinvolgersi attivamente in politica. E, come sempre, il motore del cambiamento non può che risiedere nelle giovani generazioni, più consapevoli e determinate a rivendicare per sé e per il proprio Paese un nuovo e più brillante futuro.
Foto di copertina EPA/WAEL HAMZEH