Tra gli interrogativi cui dovrà ora dare risposte compiute la nuova coalizione di governo c’è anche, se non soprattutto, quello della collocazione internazionale dell’Italia. Il tema è stato piuttosto dibattuto nel corso della campagna elettorale, e tuttavia, proprio per questo, è apparso compromesso spesso da polemiche e dubbie ricostruzioni. Sull’approccio della propaganda è dunque giunto il momento di porre un punto fermo, perché ora è necessario passare alla obiettività delle analisi e alle iniziative concrete.
L’importanza dell’intesa con la Francia e la Germania
Il nuovo Governo ha innanzitutto la responsabilità di chiarire in che termini di effettiva cooperazione intende proporsi nell’Unione Europea. C’è una scelta di fondo da compiere, e da dimostrare: se muoversi, in concreto e non solo come sembrava annunciato nei programmi elettorali, nella continuità di un “europeismo” autentico, ovvero se a questo percorso si vogliono cominciare a porre paletti e distinguo. Intanto, si farebbe bene a chiarire subito se si intende proseguire la strada intrapresa della ricerca di una leadership europea rafforzando l’intesa Italia-Francia-Germania, per esempio accelerando subito le procedure di ratifica del Trattato del Quirinale sottoscritto con la Francia, uno strumento che consentirebbe anche di coordinarsi meglio nell’industria della difesa e di evitare scontri nelle acquisizioni finanziarie.
La scelta è cruciale per vari motivi. Se l’Italia ha potuto varare il suo Pnrr risultando il principale beneficiario dei fondi europei del Next generation Eu, lo si deve all’appoggio di Francia e Germania, non bisogna dimenticarlo. Anche sul principio di “solidarietà” per la ripartizione dei flussi migratori i primi segnali di apertura erano venuti proprio da Parigi e Berlino: avevano iniziato ad accettare i primi ricollocamenti di migranti giunti in Italia con gli sbarchi clandestini, nonostante le ripercussioni nelle rispettive “politiche interne” per la scadenza di importanti consultazioni elettorali. E sul piano delle iniziative non istituzionali, va ricordato che la Comunità di Sant’Egidio ha potuto sviluppare un piano di corridoi europei – indicato come best practice dal Commissario europeo ai diritti umani – grazie anche ad organizzazioni umanitarie francesi e tedesche.
In generale, l’idea della triade sull’asse Roma-Parigi-Berlino si pone nell’alveo di una concezione dell’ Europa che ritiene necessario salvaguardare i principi dello Stato di diritto e il modello costituzionale comune, basato sul check and balance (di cui l’indipendenza della magistratura è un corollario) proprio delle democrazie liberali. Si tratta di un aspetto su cui il governo italiano dovrà essere netto nella scelta di campo, rispetto alle derive che, in nome di prerogative nazionali, hanno visto paesi come l’Ungheria discostarsi dallo standard dei diritti dell’Unione europea.
Il vero ostacolo degli alleati conservatori
Le questioni poste dunque non consentono ambiguità, e certo pure auspicando momenti di mediazione, si dovrà essere chiari sul progetto che si vuole perseguire per l’Unione Europea. Occorre perciò non dimenticare, anche in questo caso, che sovente gli interessi dell’Italia sui temi economici e dell’immigrazione sono stati contrastati proprio dalblocco dei ‘Paesi frugali’ (Olanda, Austria, Danimarca, Svezia, Finlandia e Repubbliche baltiche) o del gruppo di Visegrad (Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca e Slovacchia).
Ora occorrerà vedere se le tendenze politiche emerse (come le ultime elezioni in Svezia, e le contrapposizioni sulle posizioni dell’ungherese Orban) potranno consentire di far progredire il progetto europeo che l’Italia insieme a Francia e Germania ha finora inteso perseguire. A cominciare dall’idea di ridimensionare la regola delle decisioni all’unanimità, che di fatto non dà spazio alla volontà degli Stati che, singolarmente considerati, in Europa hanno maggiore rappresentatività: in termini di popolazione, forza economica e autorevolezza internazionale.
La più grave regressione della civiltà
Ma le previsioni sul ruolo dell’Europa sono fondamentali rispetto alla più grave emergenza che ci coinvolge direttamente sotto tutti i profili, economici, sociali, e non ultimi quelli morali: la guerra in Ucraina. L’espressione “guerra di aggressione” non può più passare come mera formula retorica, così come la nozione di “crimine di guerra”. A queste parole va dato un senso compiuto, richiamando con fermezza il valore di ciò che significano secondo il diritto internazionale, nella Carta delle Nazioni Unite, nelle Convenzioni di Ginevra e nello Statuto della Corte penale internazionale.
La guerra in Ucraina rappresenta la più grave regressione che ci ha riportato alle barbarie vissute in Europa: la seconda guerra mondiale, le violenze subite dalle popolazioni, le aggressioni all’Ungheria e alla Cecoslovacchia, il conflitto della ex Jugoslavia. Si è parlato dell’ipocrisia di chi non ha reagito così nettamente rispetto a tanti altri conflitti. Stavolta il contesto ha assunto una diversa dimensione: la Russia è uno Stato che ha accettato di aderire ai principi della Carta delle Nazioni Unite e siede nel Consiglio di Sicurezza dell’Onu la cui funzione principale è adoperarsi per la pace; Mosca ha scelto di condurre un conflitto alle porte dell’Europa, sapendo di aggredire una nazione amica dell’Europa, cui ora è stato riconosciuto anche il diritto di aderire all’Ue.
L’Italia non può, dunque, giustificare la narrazione dell’espansione della Nato come causa del conflitto, o quella ultima della “dittatura dell’Europa” sostenuta dall’improvvido capo della diplomazia russa Lavrov. Non ci si può sottrarre alle conseguenze di tutto questo. Roma non solo non deve limitarsi a sostenere l’atlantismo e la linea perseguita dall’Unione Europea, ma deve farsene protagonista perché ha l’autorevolezza di una media potenza che nel mondo può esercitare un ruolo. Basta scorrere le cronache di appena un anno fa, quando le principali testate giornalistiche internazionali presentavano i resoconti dei grandi vertici mondiali, dal G7 di Carbis Bay al G20 di Roma. Qui, l’Italia ha saputo ottenere un consenso unanime proponendo un modello di “multilateralismo inclusivo”, che in maniera lungimirante si preoccupava di evitare lo scenario dello scontro dei blocchi Occidente vs. Oriente.
Lo scontro tra il “multilateralismo inclusivo” e l’ “Occidente collettivo”
Uno dei primi grandi vertici internazionali cui con ogni probabilità sarà chiamato ad intervenire il nuovo Governo italiano sarà proprio il G20 che tra ottobre e novembre concluderà il periodo di presidenza indonesiana. Sarà importante che al G20 di Bali l’Italia si presenti con idee chiare sui grandi temi globali: dalla lotta alla pandemia, dove è ancora necessario perseguire la vaccinazione globale intervenendo sulla sospensione dei brevetti, alla transizione ecologica, dalla lotta alle diseguaglianze globali al nuovo ordine internazionale.
L’Italia può e deve avere fiducia sul proprio ruolo e sulla forza delle idee in quel contesto. Lo scenario può essere anche meno inquietante di quello che Putin prospetta con la sua minaccia nucleare. Il recente vertice di Samarcanda della Shangai Cooperation Organization (Sco) ha dato un segnale forte. Sull’organizzazione di Shangai Putin aveva puntato molto per rafforzare la coesione del fronte anti-occidentale in cui ha cercato di coinvolgere una quarantina di paesi, come aveva fatto con le imponenti esercitazioni militari Vostock-2020. Ma stavolta il progetto non è andato “secondo i piani”. Il leader cinese Xi Jinping ha posto a Putin “dubbi e preoccupazioni” a proposito della guerra contro l’Ucraina, e il premier indiano Modi ha dichiarato in maniera netta che «non è tempo di fare la guerra».
All’ “Occidente collettivo”, l’abusato termine con cui Putin definisce una comunità di Stati che crede ancora nella democrazia e nella libertà, non resta che prendere l’iniziativa per tessere con più convinzione l’idea del “multilateralismo inclusivo”. È l’idea italiana che potrebbe anche riproporre, a quella parte del mondo che si sente emarginata ed esclusa dalle grandi decisioni, i progetti di riforma dell’Onu, per assicurarne una più vasta rappresentatività. Rimangono dunque quattro priorità per il Governo italiano: non limitarsi a fungere da inerme spettatore, persistere nella deterrenza contro chi non riconosce che le ragioni della prepotenza, promuovere comunque ogni sforzo diplomatico per riportare la pace in Europa, non trascurare nel contempo le sfide del Mediterraneo allargato, guardando sempre con attenzione in particolare al dossier libico e alle minacce del jihadismo.
Foto di copertina ANSA/RICCARDO ANTIMIANI