Esclusione di squadre e atleti da gran parte delle competizioni sportive internazionali, cancellazione degli eventi in programma nei due paesi, ritiro delle onorificenze conferite alle massime cariche dello stato: sono solo alcune delle durissime misure prese contro la Russia e la Bielorussia dalle organizzazioni dello sport internazionale in risposta all’invasione dell’Ucraina lo scorso febbraio.
L’unico precedente di portata paragonabile nel secondo dopoguerra è quello delle sanzioni contro il Sudafrica dell’apartheid: mentre allora ci vollero anni perché i boicottaggi promossi dai paesi africani si traducessero in sanzioni multilaterali da parte del Comitato Olimpico Internazionale (CIO) e delle federazioni sportive, le sanzioni nei confronti di Russia e Bielorussia sono state introdotte nel volgere di pochissimi giorni dall’aggressione contro Kyiv.
Alcuni commentatori hanno visto nell’esclusione degli atleti e delle rappresentative russe un’altra manifestazione di una vera e propria “cancel culture” diretta contro il mondo artistico e culturale russo: le sanzioni sportive andrebbero quindi assimilate a misure quali l’interruzione delle collaborazioni con i musei russi o assurde restrizioni allo studio della letteratura russa nelle università. Questa prospettiva, tuttavia, non coglie l’intreccio strutturale tra sport e politica internazionale che è alla radice delle sanzioni sportive contro la Russia, come ho evidenziato in un mio recente studio.
L’uso politico dello sport
Una “guerra senza gli spari”: è così che nel 1945 George Orwell descrisse le competizioni sportive internazionali. Quella di Orwell è una provocazione che non tiene in adeguata considerazione le opportunità offerte dalle manifestazioni sportive in termini di diplomazia e distensione tra paesi. E tuttavia non c’è dubbio che le grandi competizioni sportive basate sulla partecipazione di rappresentative nazionali – dai Giochi olimpici ai Mondiali di calcio – sono anche un’occasione di confronto, competizione e perfino scontro simbolico tra i paesi. La performance sportiva viene identificata con quella della nazione tout court – e quindi ampiamente strumentalizzata per scopi politici, nei paesi autoritari e non solo.
Come già ampiamente avvenuto nell’Unione Sovietica, l’uso politico dello sport è stato un tratto distintivo della Russia di Vladimir Putin. Per dirla con il Presidente russo, le vittorie sportive contribuiscono a rafforzare “il patriottismo nel paese e il prestigio della nazione all’estero”.
L’ossessione del Cremlino per i successi a livello internazionale avrebbe persino spinto il ministero dello Sport russo a promuovere l’ampio programma di doping di stato culminato nella vittoria del medagliere alle Olimpiadi invernali del 2014. Oltre ai successi sul campo, nell’ultimo decennio il regime di Putin si è potuto fregiare dell’organizzazione di alcuni dei massimi eventi internazionali: dalle Olimpiadi invernali di Sochi (al termine delle quali, per sua stessa ammissione, Putin avrebbe preso la decisione di annettere la Crimea) ai Mondiali di calcio del 2018. Se a ciò si somma l’ampia rete di sponsorizzazioni sportive all’estero da parte di aziende russe a controllo statale (prima fra tutte Gazprom), si ha un quadro abbastanza chiaro del livello di politicizzazione dello sport russo sotto la leadership di Putin.
Questo uso politico dello sport internazionale, tuttavia, è stato possibile soltanto nella misura in cui federazioni e atleti di altri paesi sono stati disposti a gareggiare contro la Russia. Lo sport è un’attività per natura relazionale che si fonda su alcuni presupposti di base, come un riconoscimento reciproco tra le parti e un accordo di fondo sulle “regole del gioco”.
Con l’invasione russa dell’Ucraina, per molte federazioni e atleti occidentali questi presupposti sono venuti meno. Nel volgere di pochissimi giorni dallo scoppio della guerra, le voci che si sono levate dal mondo dello sport non solo ucraino, ma occidentale più in generale, a favore di un boicottaggio sportivo delle rappresentative nazionali russe sono state numerose: dal rifiuto della nazionale maschile di calcio polacca a scendere in campo contro la Russia nelle qualificazioni per i Mondiali a quello delle rappresentative schermistiche di numerosi paesi europei ai campionati di scherma junior a Novi Sad, fino alle fortissime tensioni emerse nel villaggio paralimpico di Pechino 2022.
Le sanzioni sportive e l’approccio del CIO
Di fronte a questi boicottaggi, attivamente incoraggiati da molti governi occidentali, le organizzazioni dello sport internazionale si sono trovate di fronte a un dilemma. Da un lato, prendere posizione contro il mondo dello sport russo sarebbe stato in contraddizione con la propria autoproclamata ”autonomia” e “neutralità” – due principi cardine del movimento olimpico internazionale.
Dall’altro, ignorare i fortissimi malumori dei governi, delle organizzazioni sportive e degli atleti occidentali avrebbe comportato il rischio di boicottaggi unilaterali se non addirittura di scissioni sul piano organizzativo. Anche se l’influenza della Russia all’interno del Cio e di alcune federazioni sportive internazionali non è trascurabile, lo sport internazionale è ancora, in ultima istanza, un affare predominantemente occidentale: sia sul piano economico, sia sul piano dei risultati.
La via d’uscita, indicata dal Cio nei suoi comunicati del 24, 25 e 28 febbraio, è stata quella di appellarsi alla violazione della tregua olimpica da parte di Putin come appiglio per legittimare le misure introdotte contro la Russia e la Bielorussia, tra cui la cancellazione degli eventi in programma nei due paesi, il divieto di esporne i simboli nazionali nelle competizioni sportive, il ritiro delle onorificenze alle massime cariche dello stato russe e l’esclusione degli atleti e delle squadre russe e bielorusse da gran parte degli eventi internazionali.
Come ha chiarito nei giorni scorsi il Presidente del Cio Thomas Bach, tuttavia, mentre le prime tre tipologie di misure rappresentano delle vere e proprie “sanzioni” per la violazione della tregua olimpica, l’esclusione degli atleti sarebbe invece da intendersi solo come “misura protettiva per salvaguardare l’integrità delle competizioni internazionali” alla luce dei “profondi sentimenti antirussi e antibielorussi in tanti paesi a seguito dell’invasione”: infatti le sanzioni possono essere rivolte solo contro “coloro che sono responsabili di qualcosa”, mentre “la guerra non è stata lanciata né dal popolo russo, né dagli atleti russi, né dal comitato olimpico russo, né dai membri russi del Cio”.
Dimissioni, sospensioni, esclusioni di atleti e dirigenti russi
Coerentemente con quest’approccio, fatta eccezione per una manciata di casi eclatanti – dalla sospensione della presidenza onoraria di Putin da parte della Federazione Internazionale del Judo alle dimissioni forzate dell’oligarca Alisher Usmanov dalla guida della Federazione Internazionale della Scherma – i burocrati dello sport russo sono riusciti a rimanere a margine delle sanzioni, conservando il proprio posto nelle organizzazioni sportive internazionali. A oggi, il comitato olimpico russo e quello bielorusso (il cui presidente è il figlio di Alexander Lukashenko, Viktor) non sono stati sospesi dal Cio, e due importanti federazioni (quella del tiro e quella della boxe olimpica) hanno presidenti russi.
Al contrario, anche se a parole è stata riaffermata la volontà di non “punire gli atleti per le decisioni dei propri governi”, di fatto a essere colpiti dalle misure introdotte sono stati principalmente gli sportivi russi e bielorussi. Dove possibile, alcune federazioni hanno limitato l’esclusione a quelle competizioni in cui gli atleti partecipano come rappresentanti del proprio paese, garantendo invece la possibilità di gareggiare sotto bandiera neutrale come singoli (è il caso dei circuiti Atp e Wta del tennis, che nei primi giorni della guerra avevano visto numerosi tennisti russi prendere le distanze dall’invasione, anche se non dal proprio governo) o come membri di squadre di club affiliate in paesi terzi (per esempio, nelle gare ciclistiche di club).
Questo approccio non ha tuttavia placato del tutto le polemiche: caso emblematico è quello del torneo di Wimbledon. Dopo le pressioni del governo britannico affinché i tennisti russi dichiarassero di “non supportare” la guerra in Ucraina come precondizone per la loro partecipazione, il 20 aprile gli organizzatori hanno deciso di escludere del tutto gli atleti russi e bielorussi dal torneo. La decisione di Wimbledon è stata presa in maniera unilaterale, in violazione della già citata policy della federazione internazionale del tennis, scatenando una reazione sia da parte di Wta e Atp – che hanno sottolineato come un simile approccio potrebbe portare a forme di “discriminazione fondate sulla nazionalità” – sia di numerosi atleti occidentali, a differenza di quanto era avvenuto a fine febbraio.
Il mito della neutralità
Una delle ragioni alla base della raccomandazione del Cio alle federazioni di escludere gli atleti russi è stata – nelle parole del presidente Thomas Bach – quella di prevenire una possibile “politicizzazione delle competizioni sportive da parte di team e atleti, alcune delle quali incoraggiate da terzi”, e di evitare che “lo sport e gli atleti diventino un mero strumento del sistema delle sanzioni politiche”. Allo stesso tempo, le sanzioni sono state denunciate da Putin come un’ingiustificata provocazione, richiamando i “principi fondamentali dello sport, libero dalla politica e dalla discriminazione”.
Su una cosa Bach e Putin sembrano convergere: una narrazione tutta incentrata sulla presunta “neutralità” dello sport. Al contrario, la vicenda delle sanzioni contro lo sport russo sembra confermare come sport e politica internazionale tendano a intrecciarsi in maniera strutturale.
Nelle manifestazioni sportive internazionali, rappresentative di paesi diversi si incontrano, si confrontano e si scontrano tra loro, producendo dei messaggi dalla grande potenza simbolica di fronte a un’audience potenzialmente globale. Di conseguenza, lo sport internazionale può facilitare l’interazione e persino la distensione tra paesi; ma, in un contesto internazionale segnato da una guerra di aggressione, può anche essere un palcoscenico ideale per segnalare il proprio dissenso nei confronti di uno Stato e di un governo che stanno violando i principi fondamentali del diritto internazionale.
Nel caso della guerra in Ucraina, le organizzazioni dello sport internazionale si sono trovate di fronte a pressioni convergenti dall’alto (i governi e le federazioni occidentali) e dal basso (gli atleti stessi) per una presa di posizione contro la Russia. Il fatto che queste pressioni abbiano portato effettivamente a sanzioni molto severe è la dimostrazione dell’influenza tuttora predominante del mondo occidentale sullo sport internazionale.
Doppi standard e il rischio di una frattura
Come è stato notato, di fronte ad altre gravi violazioni del diritto internazionale perpetrate in paesi non europei non si è registrata una presa di posizione ugualmente ferma da parte del mondo dello sport. Per evitare accuse di “doppi standard”, in futuro sarà necessario che considerazioni relative ai diritti umanitari, e ai diritti umani più in generale, siano maggiormente centrali nelle scelte delle organizzazioni sportive internazionali – specie nell’assegnazione di mega-eventi a regimi poco trasparenti.
Indubbiamente, le sanzioni contro la Russia portano con sé il rischio di una frammentazione di lungo periodo del mondo dello sport internazionale. Il Cremlino sta attivamente promuovendo una serie di manifestazioni “alternative”, al momento solo con la partecipazione di paesi del proprio “vicinato”, ma che potrebbero allargarsi a molti paesi non occidentali. Per prevenire una divisione duratura del mondo dello sport e per mantenere aperti i canali della diplomazia sportiva, le organizzazioni internazionali potrebbero iniziare a tracciare una possibile road map per la reintegrazione degli sportivi russi, strettamente condizionata a un’auspicabile de-escalation del conflitto in Ucraina. In ultima istanza, è solo ritrovando un accordo sulle regole fondamentali che sarà possibile tornare a gareggiare assieme.