Alla fine del processo di evacuazione delle truppe statunitensi e della Nato dall’Afghanistan, il governo dei talebani – insediatosi con l’occupazione di Kabul il 15 agosto 2021 – aveva annunciato un approccio al potere in rottura con il passato. Alcuni dei cambiamenti proposti dai talebani prevedevano l’amnistia verso i membri delle forze di polizia e dell’esercito, un atteggiamento più liberale verso i diritti delle donne – ma non in contrasto con la sharia, la legge islamica – e la possibilità per le organizzazioni internazionali di continuare a operare nel Paese. Queste dichiarazioni – unite alla politica del “prima il riconoscimento e poi i diritti umani” – sono in contrasto con quello che sta accadendo nel Paese.
Le promesse di un’amnistia verso militari, polizia, membri dell’intelligence del precedente governo rischiano di essere una speranza illusoria. L’inchiesta pubblicata da Human Rights Watch documenta gli omicidi e le sparizioni di 47 membri delle Forze di sicurezza nazionale afghane (Ansf), personale che si è arreso in seguito al colpo di stato del 15 agosto scorso. I responsabili delle esecuzioni sommarie – che si elevano a 100 se si considerano le zone di Ghazni, Helmand, Kandahar e Kunduz – sarebbero luogotenenti e comandanti locali del governo talebano.
Stragi senza colpevoli
La ricostruzione di Human Rights Watch che denuncia le esecuzioni, si basa su 40 colloqui diretti in quattro province e 27 colloqui telefonici con testimoni, parenti e amici delle vittime, giornalisti, sanitari e alcuni talebani. Un comandante ha definito “imperdonabili” gli autori di questi massacri.
Le questioni sollevate dal report non riguardano solo le esecuzioni sommarie e l’utilizzo fraudolento di documenti di identità e contratti di lavoro per schedare e identificare le vittime. La denuncia si estende anche alla mancanza di un apparato giudiziario indipendente in grado di investigare e punire i responsabili di questi eccidi. Secondo Human Rights Watch “il 21 settembre i talebani hanno annunciato l’istituzione di una commissione investigativa su casi di abusi dei diritti umani, corruzione, furti e altri crimini. La commissione non ha ancora annunciato alcuna indagine sugli omicidi riportati alle autorità, anche se ha comunicato l’arresto di numerosi talebani per furti e l’assoluzione di altri per casi di corruzione”.
Il riconoscimento internazionale e la mediazione sui diritti umani
Il ritorno del regime talebano in Afghanistan aveva posto, a livello internazionale, il problema della mediazione sui diritti umani. Con il cambio di governo, i Paesi della Nato impegnati nel progetto di costruzione di uno Stato democratico afghano si sono trovati davanti a un dilemma nella gestione dei rapporti con i talebani: meglio l’intransigenza e le sanzioni o la ricerca di un compromesso sui diritti dei cittadini afghani?
Il G20 sull’Afghanistan – la riunione straordinaria dei capi di stato e di governo voluta dal presidente del Consiglio Mario Draghi – si era conclusa con la decisione di un mandato umanitario all’Onu nel Paese scosso da una crisi economica senza precedenti, che rischia di portare alla carestia. Il sostegno al popolo afghano era stato unanime, ma la questione del riconoscimento del governo talebano aveva sollevato divisioni tra due blocchi di Paesi. Nella tradizionale divisione emergente nel consesso internazionale, la Cina si era schierata per il rispetto della sovranità del popolo afghano e del nuovo governo. La gestione della crisi umanitaria“ richiederà contatti con i talebani, ma questo non significa un loro riconoscimento”, aveva invece avanzato Mario Draghi. Riconoscimento che il presidente francese Emmanuel Macron aveva condizionato al perseguimento della parità di genere e delle operazioni umanitarie nel Paese. “Non ci dovrebbe essere ingenuità, chi pensava che i talebani sarebbero stati liberali ha già una risposta”, aveva dichiarato il presidente francese in un’intervista a France Inter prima del vertice.
Diritti delle donne: un altro terreno illusorio
L’ingenuità politica cui ha fatto riferimento Emmanuel Macron è misurabile anche attraverso la retorica talebana sui diritti delle donne. Se, in prima battuta, il nuovo governo di Kabul si era dimostrato disponibile a contrattare sul diritto al lavoro e allo studio delle donne, questa promessa si è presto rivelata fallace. “Le donne avranno un ruolo attivo in questa società” – aveva detto Zabihullah Mujahid, il portavoce del gruppo in una conferenza stampa tenuta ad agosto, subito dopo la conquista di Kabul – “le donne potranno lavorare e studiare tenendo conto della legge islamica”.
Dalla promessa di reintegrare le donne nel sistema universitario – ma solo in casi specifici e con precise condizioni – fino alla rimozione dei manifesti pubblicitari raffiguranti donne nelle strade delle capitale, il governo dei talebani ha dimostrato un’apertura di facciata verso la parità di genere. L’ultimo provvedimento – all’interno delle linee guida religiose per la stampa – impone alle giornaliste di seguire un codice di abbigliamento conforme alle disposizioni religiose e cancella le donne dallo spazio televisivo, anche nelle soap opera. Un atteggiamento doppio che sembra adattarsi alle esigenze internazionali, ma resta ancorato al passato a livello interno.
Foto di copertina EPA/STRINGER