22 Dicembre 2024

La “sciagura storica”: Putin e l’eredità dell’ideologia sovietica

La confessione di Vladimir Putin di aver fatto il tassista abusivo per colpa del dismembramento dell’Unione sovietica, fatta agli autori di un documentario sulla storia recente della Russia nel trentesimo anniversario del collasso dell’impero sovietico, corona la costruzione della narrazione del Cremlino su quella che è stata definita una sciagura storica. Lo stesso Putin aveva già nel 2004 definito il collasso del Paese in cui era nato come “la più grande catastrofe geopolitica del XX secolo”, e negli anni successivi il presidente russo si è configurato sempre di più come un leader post-traumatico, che attingeva la sua legittimità da quel momento di shock e formulava la sua missione come un tentativo di rimediarvi.

Gli esempi dell’ideologia post-sovietica

La nostalgia per l’Urss è diventata l’ideologia ufficiale del regime, nascendo da giochi di marketing innocenti come il ritorno ai sapori delle caramelle dell’infanzia e il recupero delle vecchie commedie e cartoni animati, ed evolvendo in un recupero a 360 gradi dei codici culturali e politici, con al centro la glorificazione della vittoria sul nazismo come principale successo sovietico, base fondante per le rivendicazioni “geopolitiche” di Mosca nel nuovo millennio.

Numerosi gesti del Cremlino negli ultimi anni sono stati volti al recupero dell’eredità ideologica sovietica. Alcuni esempi: l’impegno costituzionale a “tutelare la storia” sovietica che di fatto rende impossibile un dibattito critico; la legge votata dalla Duma che penalizza i paralleli tra Unione sovietica e Terzo reich; il verdetto che sancisce il mantenimento del segreto sui nomi dei carnefici dell’Nkvd nel gulag staliniano; i recenti giochi di guerra al confine dell’Ucraina sul cui territorio Putin ormai avanza pretese quasi esplicite, fino al recente appello del superprocuratore Aleksandr Bastrykin a tornare alla scuola sovietica, “la migliore al mondo”.

Nostalgia e rimpianti di grandeur

Dichiarazioni che possono sembrare contraddittorie per un’élite che manda i figli a studiare in Inghilterra, sfoggiando lussi impensabili ricavati da potentati economici privati, mentre il sistema del welfare viene ridotto anno dopo anno. L’ideologia e la propaganda di Mosca negli ultimi vent’anni hanno poi mischiato in maniera molto paradossale il rimpianto per i fasti sovietici con quello per la monarchia dei Romanov, in un mix di Stalin e Nicola II che non sarebbe piaciuto a nessuno dei due. Ma la nostalgia dell’Unione Sovietica resta il legame più forte che accomuna Putin e il suo gruppo dirigente con il suo elettorato, il cui nocciolo duro – sparita la maggioranza putiniana – resta proprio quello dei loro coetanei, di chi ha vissuto lo shock della sparizione di un Paese, un impero, un sistema, e più che il benessere economico (inesistente) ne rimpiange le certezze e la grandeur, e la fatica dell’adattamento a quello che è venuto dopo.

È vero che Putin ha trasformato il collasso dell’Urss in una tragedia nazionale e personale, di cui il suo presunto passato da tassista – nel 1991 il futuro presidente era già vicesindaco di Pietroburgo, e in precedenza aveva affermato di aver soltanto pensato a guadagnare il pane al volante della sua Volga acquistata grazie alla sua missione con il Kgb in Germania dell’Est – dovrebbe essere il simbolo. Nello stesso tempo, nessun esponente della leadership russa ha mai condannato la decisione di sciogliere l’Urss, presa dai leader dell’Ucraina, Bielorussia e Russia – all’epoca ancora formalmente repubbliche sovietiche – l’8 dicembre 1991. Per un motivo molto semplice: lo stesso Putin è diretto erede di quella decisione, e se Boris Eltsin non si fosse fatto artefice e promotore del divorzio tra i componenti del fatiscente impero comunista probabilmente l’attuale presidente guiderebbe ancora la sua Volga a Leningrado.

Nella foto di copertina (ANSA – POOL / VALERIY SOLOVJEV / CD): Vladimir Putin al centro insieme Leonid Kuchma, Islam Karimov, Oskar Akaev and President of Belarus Alexander Lukashenko, a un meeting in Moldova nell’ottobre del 2002

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