22 Dicembre 2024

La nuova ondata di attentati fa salire la tensione tra Israele e Palestina

L’ondata di violenza che ha visto undici vittime israeliane in tre attacchi in una settimana e vittime palestinesi in scontri con l’esercito ha origini antiche, rinnovate da un cambiamento nella geopolitica dell’area che ha spostato gli equilibri dei vari paesi. Sia Israele che i Territori Palestinesi sono Paesi incompiuti: il primo deve fare i conti con una mai avvenuta pacificazione con la componente araba dei suoi cittadini che a torto e a ragione si sentono di serie B; i secondi, a causa di una classe politica corrotta il cui unico intento è di conservare il potere, si sono sempre più isolati non solo al loro interno facendo crescere malcontento, ma anche all’esterno.

La condanna di Mahmoud Abbas

Due dei tre attacchi avvenuti in Israele, sono stati perpetrati da arabi israeliani legati all’Isis. Il terzo e più letale in termini di vittime, è avvenuto ad opera di un palestinese di Jenin. Quest’ultimo era anche un membro di Fatah, il partito del presidente, oramai a vita, palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen). L’isolamento di quest’ultimo, un isolamento voluto, è dimostrato dal fatto che la sera del quintuplo attentato a Bnei Barak ad opera del membro del suo partito, Abu Mazen abbia diffuso una nota di biasimo e di condanna per l’accaduto, attirandosi le ire dei suoi conterranei.

Una mossa che non ha precedenti e che è dovuta costare non poco al presidente ottuagenario. Fino ad oggi i leader palestinesi non avevano condannato attentati, anche perché gli attentatori vengono sempre identificati dalla retorica e dalla propaganda come eroi e sostenuti dall’opinione pubblica. Stavolta però Abbas ha ricevuto non poche pressioni da Israele, in particolare dal ministro della difesa Benny Gantz. Questi, ex capo dell’esercito, doveva, con Netanyahu, essere primo ministro a rotazione, fino a che Netanyahu ritrattò e poi cadde il governo.

Il pragmatismo di Gantz

Negli ultimi tempi, dopo aver sostenuto il nuovo governo ibrido di Gerusalemme che va dall’estrema sinistra all’estrema destra, Gantz si è imposto come una colomba soprattutto nel rapporto con i palestinesi. Più volte si è espresso per la necessità di uno Stato per loro, senza però entrare nei dettagli. Ed ha incontrato per ben due volte in poco tempo Abu Mazen a Ramallah e a casa sua in Israele, diventando interlocutore privilegiato, studiando da “piccolo Rabin”.

L’approssimarsi del Ramadan ha spinto Gantz a obbligare Abbas alle dichiarazioni, pena restrizioni di movimenti per i musulmani durante il mese sacro e con la minaccia pure di limitare permessi di lavoro. Abu Mazen, che ha più volte dimostrato di non interessarsi della piazza, vedi la cancellazione ripetuta delle elezioni, ha così accettato di condannare “le uccisioni di palestinesi e dei civili israeliani portano solo a un ulteriore deterioramento della situazione, poiché tutti ci sforziamo di raggiungere la stabilità, soprattutto mentre ci avviciniamo al mese sacro del Ramadan e delle festività cristiane ed ebraiche”.

L’isolamento di Fatah

Abbas è solo: mentre lui condannava, il suo uomo a Jenin, il capo di Fatah nella città palestinese, lodava l’azione del terrorista come eroica. Ma è isolato anche all’esterno. Gli Usa, nonostante Biden al posto di Trump e le tante promesse, ancora non hanno né aperto il consolato a Gerusalemme né tantomeno sostenuto più di tanto l’Autorità Palestinese.

Il vertice dei ministri degli esteri di Emirati Arabi, Bahrein, Marocco, Israele, Usa ed Egitto nel Negev, la settimana scorsa, ha sancito, semmai ce ne fosse stato bisogno, questo isolamento. Tutti, compresi gli israeliani, hanno parlato della necessità dello Stato palestinese, ma nessuno ha sottoscritto impegni o road map, progetti o programmi. Restano in piedi gli accordi di Oslo mai completamente messi in pratica e il progetto di Trump, osteggiato dai palestinesi. I paesi arabi che hanno sottoscritto con Israele gli Accordi di Abramo, ma anche quelli che mancano all’appello, come l’Arabia Saudita, mostrano sempre più disaffezione verso la causa palestinese, nei confronti dell’attuale leadership. Non è un caso che gli unici a impegnarsi fortemente sono i qatarini, ma a Gaza, dove Abbas conta quasi zero.

Il pericolo radicalizzazione

E infatti, Hamas non ha perso tempo e ha plaudito agli attacchi contro Israele, anche con le voci dei suoi massimi esponenti. E ha giocato come meglio sa fare, strisciando nel sottobosco per aumentare consensi. Anche se formalmente il movimento che controlla la Striscia ha boicottato le elezioni locali che si sono tenute sabato 26 marzo, nella seconda tornata, di fatto suoi esponenti, sodali e sostenitori sono stati eletti nelle liste diverse da Fatah, provocando un tracollo del partito che controlla l’Autorità palestinese.

Fatah ha conquistato Ramallah, Jenin e Nablus, gli amici di Hamas invece Hebron, Tulkarem e Al Bireh, che è vicinissima a Ramallah. Questo nonostante alla vigilia del voto ci sono stati numerosi arresti da parte dell’esercito israeliano, di sostenitori di Hamas, molti candidati, arresti ovviamente avvenuti con la complicità dell’Ap, nell’ambito di quell’accordo di cooperazione di sicurezza con Israele che per molti palestinesi è la prova della connivenza dell’establishment palestinese con gli occupanti.

In verità l’accordo è necessario, perché dovrebbe garantire pace e stabilità, il problema è che Abu Mazen non riesce a rappresentare i palestinesi. La comunità è più che mai divisa, le idee di resistenza armata, che facilmente sfociano in terrorismo, promulgate da Hamas e simili, si fanno largo tra i giovani, anche tra gli insospettabili. Nelle università le posizioni estremiste stanno sempre prendendo più piede. I giovani nati sotto occupazione, che non hanno mai neanche votato per il parlamento palestinese, non credono più a questa classe politica e si lasciano convincere dai promulgatori di odio. E, alla vigilia di Ramadan, della pasqua cristiana e di quella ebraica e a un anno dallo scontro armato con Gaza e delle rivolte delle comunità arabe in diverse città israeliane, questo non fa certo presagire per il meglio. Solo una leadership palestinese forte, aperta e democratica potrebbe cambiare il trend, per evitare sempre più l’isolamento e la radicalizzazione.
Foto di copertina EPA/ALAA BADARNEH

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