Le proteste che scuotono il Perù da inizio dicembre, quando l’ex presidente Pedro Castillo fu destituito dopo aver tentato di sciogliere il Congresso e legiferare per decreti esecutivi, non accennano ad affievolirsi. Al contrario, la repressione statale – che ha causato già quasi 60 morti, quasi tutti tra i manifestanti – e l’incapacità della presidente Dina Boluarte, in carica dalla destituzione di Castillo, di trovare una soluzione politica alla crisi, non hanno fatto altro che alimentarle.
Estensione delle proteste e dati della crisi
Le proteste infatti, inizialmente concentrate nel sud del paese e nelle zone rurali a maggioranza indigena – quali le regioni di Arequipa, Apurímac, Ayacucho, Cuzco e Puno – hanno raggiunto la capitale Lima già a inizio gennaio. D’altra parte, la composizione etnico-sociale dei manifestanti sta evolvendo: non si tratta più solamente dei sostenitori di Castillo, le popolazioni rurali e con affinità ideologiche o identitarie con l’ex presidente, che vedevano nella sua destituzione e arresto un atto arbitrario perpetrato da settori conservatori della classe politica peruviana.
Di fatto le proteste stanno coinvolgendo il ceto medio, con un ruolo sempre più attivo degli studenti universitari. L’espansione geografica e settaria delle proteste si riflette anche in una diversificazione delle richieste promosse da un movimento di protesta perlopiù spontaneo, senza una leadership chiara: dall’esigere la liberazione di Castillo si è passati alla richiesta di rinuncia di Boluarte, poi elezioni anticipate, e ancora a una nuova Costituzione che rifondi le basi dell’ordinamento politico, economico e sociale del paese.
Sebbene scaturite da un preciso evento politico, le proteste hanno infatti dissotterrato un malessere latente, soprattutto tra le popolazioni rurali ed indigene, verso l’ordinamento politico ed economico ereditato dalla dittatura di Alberto Fujimori e vigente anche dopo la sua fine, basato sull’estrattivismo, la poca rappresentazione dei popoli originari nelle istituzioni politiche e fitte reti di corruzione (quasi tutti i presidenti degli ultimi 30 anni sono stati infatti indagati o condannati per delitti legati alla corruzione). Le promesse di sviluppo e riduzione delle disuguaglianze arrivate con l’avvento della democrazia post-Fujimori, infatti, non si sono materializzate.
Mentre il Perú ha il sesto PIL più alto in America Latina, circa un terzo della sua popolazione vive ancora sotto la soglia della povertà, e quasi 17 milioni di persone (più della metà della popolazione) affrontano una grave insicurezza alimentare, aggravata dall’impatto sull’economia della pandemia e l’aumento dei prezzi deli beni di prima necessità scatenato dalla guerra in Ucraina.
Repressione e intransigenza come benzina sul fuoco
La repressione delle forze di sicurezza ha giocato un ruolo centrale nell’indignazione e nella susseguente partecipazione di altri settori della società alle proteste. In poco più di un mese di manifestazioni, sono almeno 58 le vittime confermate, quasi tutte tra i manifestanti, e molte delle quali presentano ferite di arma da fuoco al torace e alla testa, segnali inequivocabili di un uso eccessivo della forza da parte delle forze di sicurezza. Varie centinaia sono anche i feriti, così come più di 600 sono i manifestanti arrestati. Un episodio emblematico è stato un raid della polizia nell’Universidad Nacional Mayor de San Marcos, nella capitale Lima, che ha portato all’arresto provvisorio di decine persone. L’irruzione ha ricordato operazioni simili condotte dalle dittature militari degli anni ’80 in vari paesi latinoamericani, finalizzate ad eradicare i gruppi sovversivi di sinistra che supponevano annidarsi tra gli studenti.
L’altro elemento che ha alimentato le proteste è stata l’incapacità della presidente Boluarte di negoziare consensi in un Congresso che si è dimostrato intransigente verso le richieste popolari, in particolare sulla questione delle elezioni anticipate. Boluarte, che si è ripetutamente rifiutata di dimettersi, ha proposto in un primo momento di anticipare le elezioni, previste per il 2026, all’aprile del 2024, proposta che però non ha incontrato un riscontro favorevole tra i manifestanti.
La settimana scorsa, sotto la pressione di un movimento sempre più presente nella capitale, sembra finalmente aver ceduto su questo punto, chiedendo al Congresso di consentire un anticipo delle elezioni a ottobre di quest’anno. La proposta, più accettabile per i manifestanti, è stata inizialmente scartata dai legislatori, probabilmente dovuto alla paura delle elite politiche conservatrici di andare incontro a una sonora sconfitta – secondo un sondaggio recente, circa l’88% dei peruviani ha una percezione negativa del Congresso; oppure come frutto di un deliberato tentativo di mettere all’angolo Boluarte, forzandone le dimissioni che porterebbero all’attuale presidente del Congresso, l’ex generale dell’esercito e conservatore José Williams.
Il 29 gennaio, in un messaggio alla nazione, la presidente Boluarte ha ripassato la palla nel campo del Congresso, insistendo anche sulla necessità che la prossima legislatura affronti la questione della riforma della Costituzione. Anche stavolta, dopo aver riaperto il dibattito sulle elezioni, i deputati hanno nuovamente bocciato l’iniziativa, costringendo Boluarte a introdurre un progetto di legge dalla presidenza, senza maggior garanzia di essere approvato. Mentre il ping-pong istituzionale impantana la ricerca di una soluzione politica, la situazione nelle strade rimane critica, e le operazioni militari per sgomberare i blocchi delle arterie principali del paese continuano.
La dimensione regionale delle proteste
Le proteste in Perù hanno anche assunto una dimensione internazionale e rappresentano una sfida per il multilateralismo latinoamericano, fresco di un nuovo slancio guidato dalla svolta a sinistra di quasi tutti governi della regione, in quella che alcuni chiamano una “seconda ondata rosa” (vedi figura 1).
I nuovi governi progressisti infatti, trainati dal Brasile di Lula Inácio da Silva, hanno promesso di rimettere al centro dell’agenda regionale la difesa della democrazia, severamente colpita negli ultimi anni da elezioni contestate in Bolivia e Honduras e repressioni autoritarie, su tutte in Nicaragua e Venezuela, così come il più recente assalto alle istituzioni a Brasilia. Nel passato, di fronte ai retrocessi democratici, istanze regionali come l’Organizzazione degli Stati Americani (OSA), fino al 2020 dominate da governi di destra, hanno risposto in maniera politicizzata, ignorando gli indizi di autoritarismo in paesi a guida conservatrice e in alcuni casi addirittura alimentando crisi post-elettorali come nei casi sopra citati. Di fronte alla perdita di legittimità dell’OSA, che rimane comunque il principale forum politico regionale, vari mandatari hanno recentemente proposto di rilanciare il ruolo della CELAC (Comunità di Stati Latinoamericani e dei Caraibi) come veicolo di un’integrazione economica e politica regionale, da sempre anello debole del continente latinoamericano.
La crisi in Perù è stata tema di discussione tanto nella plenaria della CELAC di fine gennaio, ospitata dall’Argentina di Alberto Fernández, quanto in due sessioni del Consiglio Permanente dell’OSA, e ha evidenziato delle differenze tra “sinistre” che potrebbero stroncare i piani di una maggiore integrazione se irrisolte. Mentre i governi di Colombia, Messico, Argentina e Bolivia hanno espresso solidarietà verso l’ex presidente Castillo, Gabriel Boric in Cile e Lula in Brasile hanno manifestato cautela, riconoscendo la gravità del suo tentativo di scioglimento delle camere.
La mancanza di coesione regionale ha alimentato le tensioni tra Lima e le capitali che si sono schierate con Castillo. Recentemente, il governo Boluarte ha richiamato i suoi ambasciatori a Bogotà, Città del Messico, Buenos Aires e La Paz per delle consultazioni. Le tensioni sono state particolarmente evidenti col vicino orientale: la Bolivia. Lima ha infatti accusato l’ex presidente boliviano, Evo Morales, di aizzare le proteste e offrire supporto logistico e perfino armamenti a gruppi sovversivi che si sono resi protagonisti di episodi violenti nel sud del paese. A gennaio, Morales è stato interdetto dal paese. Al di là delle motivazioni che hanno spinto Morales ad essere particolarmente vocale durante la crisi – quali un possibile riposizionamento elettorale dovuto a una crescente divergenza con l’amministrazione del suo ex alleato Luis Arce – e del governo Boluarte – al distogliere l’attenzione e tentare di delegittimare e criminalizzare i movimenti di protesta – le tensioni diplomatiche tra i due paesi sono una minaccia per la stabilità regionale, data l’interconnessione della regione andina e il suo ruolo chiave nell’esportazione di minerali preziosi.
I nuovi governi progressisti hanno promesso di riformare il multilateralismo latinoamericano e distaccarsi dalla lettura e gestione faziose delle ricorrenti crisi politiche e sociali nel continente che, a loro dire, è propria delle destre. La situazione in Perù ne sarà il banco di prova.
Foto di copertina EPA/Antonio Melgarejo