“La più grande trasformazione industriale dei nostri tempi – forse di tutti i tempi”: con queste parole la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen ha descritto nel suo recente intervento al World Economic Forum il percorso necessario a raggiungere lo scenario di zero emissioni di qui al 2050. Le opportunità economiche che ne derivano sono potenzialmente enormi: entro il 2030, il mercato globale delle tecnologie energetiche pulite triplicherà, arrivando a un valore complessivo di 650 miliardi di dollari.
Di fronte a questa sfida, l’Europa dovrà continuare nella direzione inaugurata con il Green Deal, il Next Generation EU e il Just Transition Fund, investendo nel rafforzamento della propria base industriale e aprendosi maggiormente all’innovazione e agli investimenti. Nel percorso verso le emissioni zero, sarà importante preservare le partnership in essere – in primis quella con gli Stati Uniti –, ma evitando di creare “nuove dipendenze”. Di qui l’idea della Commissione di sviluppare un vero e proprio Piano industriale del Green Deal, strutturato intorno a quattro pilastri: il quadro regolamentare, gli investimenti, le competenze e il commercio.
Dilemmi e trade-off
L’idea del Piano Industriale del Green Deal va letta nel quadro di quella ricerca di una maggiore autonomia strategica europea sul piano economico ed energetico di cui parla Nathalie Tocci nel suo recente A Green and Global Europe. Lungo questo percorso, non mancheranno dilemmi e trade-off da valutare attentamente. Il caso forse più eclatante è quello dei rapporti con la Cina, attuale leader nella produzione di tecnologie per l’energia solare, ma con un record assai discutibile sul piano del rispetto dei diritti dei lavoratori e dei diritti umani più in generale.
Nel suo intervento al Wef, von der Leyen ha sottolineato che l’approccio Ue al momento non è orientato a un “disaccoppiamento” dell’economia europea da quella cinese, ma piuttosto a una “riduzione del rischio“: la richiesta principale a Pechino è che venga garantito un “level playing field” – il principio che era alla base anche del Comprehensive Agreement on Investment sottoscritto da Pechino e Bruxelles a fine 2020 e attualmente congelato. Come evidenzia Tocci, tuttavia, se da parte cinese la richiesta di abbandonare pratiche commerciali sleali verrà disattesa, l’Ue potrebbe trovarsi spinta verso un maggior protezionismo a tutela del proprio comparto industriale.
L’importanza della politica
Più in generale, come ci ricorda Tocci nel suo libro, la strada verso la decarbonizzazione dell’Europa è – e sarà sempre più – costellata da decisioni che hanno una natura non meramente tecnica, ma anche politica; decisioni che vanno prese valutandone attentamente le ripercussioni non solo sul piano interno, ma anche sui paesi del “vicinato” europeo e a livello globale.
All’interno dell’Unione, sottolinea Tocci, è fondamentale mitigare gli effetti redistributivi delle politiche di decarbonizzazione, che potrebbero esacerbare le disuguaglianze sociali e territoriali: solo introducendo adeguate misure a supporto dei gruppi e delle regioni più vulnerabili – come il citato Just Transition Fund o il Social Climate Fund – sarà possibile evitare un colpo di coda dei populismi.
Anche nel Mediterraneo allargato e in Medio Oriente, al di là delle contingenze legate alla diminuzione delle importazioni europee dalla Russia, gli effetti delle politiche di decarbonizzazione sono destinati a essere asimmetrici: i paesi le cui economie sono maggiormente dipendenti dall’esportazione di combustibili fossili verso l’Europa potrebbero trovarsi particolarmente esposti a instabilità politiche dovute alla diminuita disponibilità di risorse derivanti dagli idrocarburi. Per questo, è indispensabile che l’Unione incoraggi e si faccia partner di iniziative che mettano a frutto il potenziale di produzione di energia pulita nel proprio vicinato.
Infine, a livello globale, l’Ue non dovrà soltanto fare i conti con le possibili implicazioni che un’accresciuta rivalità tra Usa e Cina potrebbe avere per il futuro della cooperazione climatica e sul piano delle interdipendenze produttive; cruciale sarà anche evitare che paesi come Russia e Cina strumentalizzino a proprio vantaggio le rivendicazioni dei paesi del Sud del mondo più esposti alle conseguenze catastrofiche dell’emergenza climatica.
Un’Europa verde e globale
Una cosa è certa: la posta in gioco è altissima. Proprio perché l’Ue si è affermata da ormai tre decenni come leader globale nel contrasto dell’emergenza climatica e – più di recente – nell’impegno per la transizione energetica, un eventuale fallimento del progetto di decarbonizzazione europeo sarebbe esiziale. Come evidenzia Tocci, per scongiurare questo rischio è indispensabile non solo che la visione di un’ “Europa verde e globale” si affermi a tutti i livelli come il principio guida del progetto europeo, ma anche che sia accompagnata da un’ambiziosa e attenta gestione politica, che renda l’epocale processo di “trasformazione” in atto sostenibile all’interno dell’Unione e catalizzatore per il resto del mondo.
Foto di copertina EPA/GIAN EHRENZELLER