21 Dicembre 2024

La “grande famiglia” dei Brics vista da Pechino

“I paesi dei Brics non si riuniscono in un club chiuso o in un circolo esclusivo, ma in una grande famiglia”. Così parlava il presidente cinese Xi Jinping all’apertura del quattordicesimo vertice dei Brics – acronimo che comprende Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica – il 23 giugno 2022, l’ultimo dei tre incontri del gruppo andati in scena solo virtualmente a causa della pandemia. Poco più di un anno più tardi, lo scorso 24 agosto, i Brics hanno ufficialmente invitato a unirsi a loro (dal 1° gennaio 2024) altri sei paesi: Argentina, Arabia Saudita, Egitto, Emirati Arabi Uniti, Etiopia e Iran. Si tratta solo della «prima fase» di espansione del gruppo e «ne seguiranno altre», ha detto il presidente sudafricano Cyril Ramaphosa, padrone di casa del quindicesimo summit Brics che si è tenuto dal 22 al 24 agosto a Johannesburg.

La vittoria diplomatica di Pechino

L’allargamento dei Brics era da tempo un obiettivo dichiarato della Cina, che ha iniziato a spingere sull’acceleratore a partire dal meeting di fine luglio tra i consiglieri per la Sicurezza nazionale dei paesi del gruppo. In quell’occasione Wang Yi, direttore della Commissione affari esteri del Comitato centrale del Partito comunista cinese (e all’epoca prossimo a essere reinsediato come ministro degli Esteri), aveva enfatizzato lo «Spirito dei Brics» volto all’apertura e alla costruzione di un «mondo multipolare», a difesa degli interessi del cosiddetto “sud globale”.

Nonostante l’appoggio della Russia, a sostegno dell’espansione perché interessata a ridurre il proprio isolamento internazionale, nella strada per aggiungere nuovi membri Pechino ha dovuto vincere le resistenze di Sudafrica, Brasile e India. Pretoria e Brasilia temevano che l’allargamento potesse essere inteso come una mossa esplicitamente antioccidentale, mentre Nuova Delhi era più preoccupata che l’ingresso di nuovi Stati legati alla Repubblica popolare ne legittimasse le ambizioni da leader del sud del mondo. Ruolo al quale si è candidata anche l’India.

I sei paesi invitati nei Brics – scelti tra i 23 totali che avevano fatto richiesta formale per aderire – sono stati dunque frutto di un compromesso, che secondo diversi analisti può comunque essere letto come un successo della Cina. I nuovi innesti sono infatti tutti partner importanti di Pechino, sia sul piano commerciale che diplomatico. La Repubblica popolare è per esempio la più grande importatrice del petrolio saudita, la prima esportatrice di armi in Etiopia (nel 2022), ed è stata anche la mediatrice dello storico accordo dello scorso marzo per il ripristino delle relazioni diplomatiche tra Arabia Saudita e Iran. Quest’ultimo è inoltre l’unico tra i nuovi membri che si può ritenere davvero antioccidentale.

Con gli ultimi “acquisti” il Pil complessivo dei Brics è cresciuto da 27 mila a 30 mila miliardi di dollari, due terzi dei 45 mila miliardi dei paesi del G7. Il salto più grande si è registrato sul piano energetico: ora il gruppo controlla il 42% della produzione mondiale di petrolio (prima dell’espansione era il 20%) e ha in Teheran il secondo maggior produttore globale di gas naturale. Ciò che conta per la Cina, però, è soprattutto il risvolto politico di un’espansione che Xi ha definito «storica».

La democratizzazione delle relazioni internazionali

Nato come “Bric” nel 2009 allo scopo di raggruppare le quattro economie emergenti del ventunesimo secolo (il Sudafrica si è aggregato nel 2010), oggi il gruppo dei Brics potrebbe essersi trasformato in un soggetto con una non trascurabile rilevanza politica. Xi stesso ha definito il gruppo una forza in grado di “plasmare il panorama internazionale“. Rifiutando quella che definisce la “mentalità da guerra fredda” statunitense, la Cina non pensa al Brics come un blocco in opposizione all’ordine internazionale vigente a guida americana. Piuttosto lo ritiene un insieme di Paesi promotori di una “democratizzazione delle relazioni internazionali”, ovvero di un miglioramento dell’attuale sistema fino al raggiungimento di un vero multilateralismo.

Nel discorso scritto da Xi per il Brics Business Forum del 22 agosto (ma pronunciato dal ministro del Commercio cinese Wang Wentao: l’assenza del leader aveva portato a diverse speculazioni, poi rientrate), la parola “Globale” è comparsa diciassette volte. La Cina si dipinge come una potenza responsabile, garante di stabilità e sicurezza. L’espansione dei Brics è volta a rafforzare tale narrazione e a metterla a disposizione di tutti i Paesi, con particolare attenzione a quelli che si ritengono essere parte del sud globale, ai quali viene presentato “l’altro lato della modernizzazione”, ha detto Xi. Di fatto, una modernizzazione che non segue i valori universali di matrice occidentale ma che rispetta le specifiche caratteristiche culturali e i sistemi politici dei singoli Stati, compresi quelli autoritari.

Paese in via di sviluppo

La Repubblica popolare sta progressivamente allargando i gruppi di cui fa parte. Non solo i Brics, ma anche la Shanghai Cooperation Organisation (Sco), finalizzata alla collaborazione economica, politica e di sicurezza tra i membri, ha accolto l’Iran nel 2023. Così facendo, oltre a legittimare la sua posizione contro i “circoli esclusivi”, Pechino da un lato si assicura che un’ampia fascia del mondo resti aperta agli investimenti cinesi, e dall’altro rafforza la propria influenza anche all’interno delle Nazioni Unite e delle sue agenzie.

Nel portare avanti le proprie iniziative, la Repubblica popolare e gli altri paesi dei Brics fanno infatti sempre riferimento alla «Carta dell’Onu», come si legge anche nella dichiarazione di fine vertice. Pechino non sta cercando di sostituire l’autorità delle Nazioni Unite, ma sta piuttosto provando a reindirizzarla verso i suoi valori e interessi, che dichiara essere complementari a quelli del sud globale. Come riportato da AidData, gli Stati che hanno i maggiori legami con la Cina sono anche quelli che sono maggiormente disposti ad allinearsi a Pechino durante le votazioni all’Assemblea generale dell’Onu. E si tratta di tutti paesi considerabili “in via di sviluppo”.

La Cina stessa continua a ritenersi tale. Durante il dialogo con i leader africani a margine del vertice dei Brics, Xi ha dichiarato che «La Repubblica popolare resterà per sempre un membro del mondo in via di sviluppo». Non è una questione economica, come dimostra la dimensione del Pil cinese, che anche dopo l’espansione dei Brics rappresenta ancora il 63% del Pil totale del gruppo. Definirsi “paese in via di sviluppo” significa per la Cina rivendicare un percorso di crescita diverso da quello occidentale. È dunque un’etichetta essenziale per legittimarsi come leader del sud globale, in grado di proporre la costruzione di un ordine internazionale che dia maggior peso alla voce dei paesi non occidentali.

I limiti dei Brics

Ming Jinwei, ex giornalista dell’agenzia di stampa statale cinese Xinhua, ha paragonato l’approccio cinese alla diplomazia alle tattiche della guerriglia maoista contro i nazionalisti durante la guerra civile: conquistare i villaggi per isolare le città. La Cina starebbe quindi “circondando” gli Stati Uniti perché “ha amici in tutto il mondo”, sostiene Ming. Ma se è vero, come evidenziato dai giornalisti Lorenzo Lamperti e Simone Pieranni, che il documento finale del summit Brics contiene molta della classica terminologia cinese, il gruppo appare tutt’altro che monolitico quando si parla di rapporti interni e con i paesi occidentali. Stati Uniti compresi.

Tra i nuovi ingressi, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti ed Egitto sono storici partner di sicurezza di Washington, con cui anche Brasile e Sudafrica non vogliono rovinare le rispettive relazioni diplomatiche. L’Argentina è divisa internamente e l’opposizione, in testa nei sondaggi per le presidenziali del 22 ottobre, ha detto che non accetterà l’ingresso nei Brics. L’India è poi parte di due “circoli esclusivi” – come li chiamerebbe Pechino – con gli Stati Uniti: il Quad per la sicurezza nell’Indo-Pacifico (insieme ad Australia e Giappone), e l’I2U2 con Israele ed Emirati. Nuova Delhi ha inoltre delle dispute territoriali aperte al confine con la Cina, e come Pechino ambisce alla leadership di quel sud del mondo che ha corteggiato nel corso di tutta la sua presidenza del G20, durante la quale è riuscita a ottenere l’ingresso nel gruppo dell’Unione Africana.

Non solo: Egitto ed Etiopia litigano da tempo per via della costruzione della “Grande diga del rinascimento etiope” sul Nilo Azzurro, e i rapporti tra Iran e Arabia Saudita appaiono ancora fragili. Quello dei Brics è dunque un gruppo eterogeneo, senza una vera coerenza politica e con poche cose in comune, tra cui spicca la volontà di rimodellare il sistema della finanza e delle relazioni internazionali. Ma anche sul piano della dedollarizzazione, uno dei temi caldi del vertice, non si sono fatti grandi passi in avanti. La New Development Bank, la banca dei Brics (ma aperta anche a paesi esterni), ha annunciato di voler concedere almeno il 30% dei prestiti nelle valute locali dei suoi membri tra il 2022 e il 2026, mentre Arabia Saudita, Brasile e Argentina si sono impegnate a usare maggiormente lo yuan cinese. Misure ritenute ancora poco efficaci per scalfire l’egemonia del dollaro.

L’espansione dei Brics rappresenta quindi per la Cina “un successo simbolico, il cui impatto reale è tutto da verificare”, ha dichiarato l’analista Manoj Kewalramani a la Stampa. Pechino ha spesso utilizzato un linguaggio vago per attirare consensi attorno alle proprie proposte internazionali, ma questo ne ha quasi sempre ridotto l’efficacia. E dato l’accumularsi di visioni e interessi diversi, l’allargamento dei Brics potrebbe complicare ulteriormente il raggiungimento di accordi politici tra i membri. Il gruppo non ha inoltre mai appoggiato ufficialmente i progetti cinesi, come la Belt and Road Iniziative (Bri), e anche nel discorso post-vertice di Johannesburg Xi non ha mai nominato le sue iniziative su sviluppo (Gdi), sicurezza (Gsi) e civilizzazione (Gci) internazionale, dimostrando la mancanza di consensi sul tema.

Al momento, la vittoria cinese sta nell’aver creato un forum di dialogo tra paesi provenienti da continenti diversi. Un tempo medie potenze con un orizzonte limitato alla propria regione, ora i membri del Brics potranno allargare il rispettivo margine di manovra e di cooperazione internazionale. È questo, almeno a parole, che potrebbe renderli davvero una “grande famiglia”.

Foto di copertina EPA/GIANLUIGI GUERCIA/POOL

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