Gli scontri di lieve entità fra Pechino e Nuova Delhi al confine (sono state coinvolte alcune centinaia di soldati da ambo le parti e non vi è stata alcuna vittima) avvenuti il 9 dicembre 2022 sono l’ultimo atto di una crisi scoppiata nel 1962 e protrattasi per sessant’anni senza essere mai giunta ad uno stabile e duraturo accordo. Nel 2020 episodi ben più gravi avevano causato un certo numero di caduti fra i militari dei due contendenti e avevano portato da un lato a notevoli strascichi di tensione e dall’altro ad un ingaggio delle diplomazie dei due paesi per appianare lo scontro.
L’origine delle dispute territoriali
Le due potenze asiatiche condividono un lungo confine suddiviso in tre spezzoni per una lunghezza totale di quasi 4 mila chilometri. Nel 1960 un passo importante nella gestione confinaria fu il Trattato di pace e amicizia firmato dal governo di Pechino con il Nepal: dopo aver definito il confine con lo stato himalaiano, mentre il trattato confinario con il Pakistan era in via di definizione (sarebbe stato ratificato nel 1963), il nodo da risolvere a sud rimaneva quello con l’India.
La questione confinaria era senza dubbio degradata in quegli anni da fattori di politica internazionale, come il ruolo del governo di Jawaharlal Nehru nella rivolta tibetana del 1959 e l’avvicinamento dell’India all’Unione Sovietica (con un’alleanza strategica). Esaurite le vie diplomatiche, secondo il punto di vista di Pechino, la Cina, nel 1962, occupò militarmente alcune fette di territorio controllate in precedenza dall’esercito indiano ma subito dopo aver dimostrato la propria preminenza dichiarò il cessate il fuoco, ritirandosi oltre la Line of Actual Control (LAC), riconosciuta bilateralmente (ma non in maniera univoca) solo nel 1993, in un accordo fra la Cina di Jinag Zemin e l’India del Primo ministro del Congresso Shri P. V. Narashima Rao.
La fotografia attuale del confine
Le aree oggetto di contesa sono afferenti alle tre porzioni del confine che corrono da est verso ovest, essenzialmente nell’area geografica himalayana: l’area del Ladakh, quella dello Himachal Pradesh/Uttarakand, e quella del Sikkim e Arunachal Pradesh. La prima porzione di confine è rilevante per la sua contiguità al Pakistan e alla pur contesa regione del Kashmir (nodo strategico del Subcontinente), la porzione di confine che attraversa gli Stati dello Himachal Pradesh e dell’Uttarakand è fondamentale perché si trova in un’area ricca di passi che collegano il Subcontinente alla regione a nord dell’Himalaya ed infine l’area dell’Arunachal Pradesh e Sikkim è una zona ricco di risorse naturali, oltre ad rappresentare geograficamente una porta per il sud-est asiatico.
L’ultimo “sconfinamento” è avvenuto all’inizio del mese di dicembre nell’Arunachal Pradesh, presso il distretto di Tawang, e ha causato lo scontro di truppe cinesi contro una nutrita pattuglia militare indiana, anche se le versioni su chi abbia effettivamente forzato lo status quo per primo sono naturalmente opposte. Per i responsabili cinesi l’azione si era resa indispensabile a causa di un ammassamento di truppe indiane al confine provvisorio o poco oltre e alla costruzione di infrastrutture tese ad appropriarsi di fatto di un’area ancora formalmente contesa. Immediatamente dopo l’incidente i comandanti militari delle parti si sono incontrati per scongiurare un innalzamento incontrollato della tensione, ma l’episodio si inserisce di diritto sulla scia di tensioni inaugurate con gli episodi militari del 2020.
Dagli scontri del maggio 2020 India e Cina hanno tenuto una serie di incontri a livello strategico militare e diplomatico, l’ultimo dei quali successivo agli incidenti di Tawang, che indicano, sulla carta, una volontà diplomatica di appianare la tensione ma allo stesso tempo una scarsa volontà politica nel risolvere definitivamente la crisi. I dialoghi hanno ottenuto un parziale ritiro delle truppe, almeno nel tratto più occidentale ma sono stato contrassegnati da un interesse nell’ottenimento di risultati parziali (appunto il ritiro delle truppe e lo smantellamento di determinate infrastrutture).
Un conflitto latente
La volontà politica di mantenere una certa tensione a livello militare può essere inquadrata in una logica del gioco a somma zero per la Cina che approfitta di ogni evento sul terreno per ottenere vantaggi tattici (porzioni di terreno o un’effettiva deterrenza), e di immagine in politica interna, dimostrando che la dirigenza di Xi Jinping non recede in nessun spazio reale o immaginario di sovranità contesa: Tibet, Mar Cinese Meridionale e Taiwan e, appunto, confine con l’India. D’altronde la recente affermazione dell’uomo forte del Partito Comunista Cinese e della fazione dei red princelings non può lasciare spazio a ripiegamenti su un terreno importante e tanto fertile come quello del nazionalismo. Al contempo, le dichiarazioni e gli atteggiamenti del livello più alto sono distensive sul panorama internazionale, come lo dimostra l’intervento sul caso del Ministro degli esteri cinese Wang Yi, che ha dichiarato una piena intenzione alla cooperazione.
Il governo indiano deve con ogni evidenza affrontare più dilemmi ogni volta che la questione delle frizioni confinarie si ripresenta. Innanzitutto il Primo ministro Narendra Modi sa di dipendere da un elettorato ultranazionalista che gradirebbe una risposta molto forte (anche militarmente) che l’India non può certo permettersi, sia per ragioni diplomatiche, come la compresenza con Pechino in organizzazioni come la Shanghai Cooperation Organisation che di potenza militare effettiva. Una seconda questione spinosa, che costringe Nuova Delhi ad un equilibrismo diplomatico, è la necessità di continuare la propria costruzione di un’immagine di potenza pacifica che sia security provider per il Subcontinente.
Le tensioni sembrano destinate a rimanere al livello di un conflitto latente o a bassa intensità in un gioco squisitamente geopolitico che se non vedrà vincitori definitivi non può certo nuocere agli alleati cinesi nell’area, primo fra tutti il Pakistan.
Foto di copertina EPA/FAROOQ KHAN