Il 29 dicembre 2022, l’esecutivo più a destra nella storia di Israele ha prestato giuramento alla Knesset con la nomina di leader dei movimenti politici dei coloni a capo di ministeri chiave.
Eppure, la ragione che ha scatenato una mobilitazione nazionale contro il nuovo esecutivo guidato da Benjamin Netanyahu ha poco o niente a che fare con il suo programma annessionista e antipalestinese, ma riguarda la proposta di riforma giudiziaria volta a limitare il potere della Corte Suprema. La riforma è stata temporaneamente accantonata nell’ambito di un accordo di coalizione che prevede l’istituzione di una Guardia Nazionale incaricata di gestire i “disordini arabi”, anticipando ancora più violenza a danno dei palestinesi.
Infatti, il numero di palestinesi uccisi quest’anno è destinato a superare i dati del 2022, con almeno 95 morti da gennaio, risultato di frequenti incursioni dell’esercito israeliano in Cisgiordania per arginare la rinascita della resistenza armata palestinese all’occupazione. Nello stesso arco di tempo, almeno 16 israeliani sono stati uccisi.
L’approccio anacronistico dell’Ue
Allarmati dall’escalation in Israele e Palestina, i 27 Stati membri dell’Ue hanno lanciato un appello al contenimento della tensione e l’Alto rappresentante Ue per gli affari esteri, Josep Borrell, ha invocato un nuovo sforzo internazionale per accompagnare le parti al tavolo delle trattative. Tuttavia, il suo invito all’”onestà” nel riconoscere il crescente estremismo sia in Israele che in Palestina non contempla l’ingiustizia strutturale subita dai palestinesi e subordina il loro diritto all’autodeterminazione a negoziati e compromessi.
Gli accordi di Oslo del 1993 e 1995 hanno consacrato l’idea che i negoziati siano l’unico mezzo per raggiungere la pace, consolidando la percezione di un conflitto tra due parti eque. Questo approccio dominante privilegia una “pace negativa” – limitata, cioè, alla cessazione della violenza fisica diretta – rispetto al raggiungimento di una pace giusta e duratura che affronti le radici dell’ingiustizia.
Sebbene l’Unione Europea abbia abbracciato questo criterio e sostenuto il progetto di separazione tra Israele e uno Stato palestinese indipendente attraverso la politica di differenziazione, la realtà sul campo ha dimostrato che la sua risposta è stata inadeguata ad affrontare efficacemente la questione. Malgrado la soluzione a due Stati diventi sempre meno raggiungibile, l’Ue continua a ribadire la sua stagnante posizione ufficiale per nascondere la frammentazione interna e la mancanza di volontà politica perpetuando una situazione in cui una pace giusta e sostenibile rimane elusiva. In sostanza, la riluttanza dell’Ue a chiamare le cose come stanno, nascondendosi dietro la definizione non vincolante di antisemitismo dell’IHRA, ha permesso a Israele di perseguire indisturbata nel suo obiettivo di espansione delle colonie.
L’atteggiamento europeo sulla questione non solo compromette la capacità dell’Ue di avere un impatto significativo in merito, ma mina anche la sua immagine di baluardo del diritto internazionale. Il continuo utilizzo da parte europea di un linguaggio incentrato sul dialogo e sulla pace (negativa), non solo indica un distacco dalla realtà dei fatti, ma riflette anche l’incapacità dell’Ue di restare al passo con il cambiamento di paradigma attualmente in corso nel discorso giuridico internazionale attorno a Israele-Palestina.
Il re è nudo: l’occupazione israeliana è coloniale
Numerosi documenti delle Nazioni Unite (ONU) e di organizzazioni non governative mettono in discussione la rappresentazione affermatasi dopo gli accordi di Oslo, segnando così un parziale ritorno al discorso prevalente prima degli anni Novanta. Questi includono relazioni della Commissione economica e sociale delle Nazioni Unite per l’Asia occidentale (ESCWA), di importanti organizzazioni internazionali per i diritti umani come Human Rights Watch, Amnesty International, B’tselem e Al-Haq, nonché rapporti dei relatori speciali dell’ONU Michael Lynk e Francesca Albanese e della Commissione d’inchiesta sui Territori palestinesi occupati, compresa Gerusalemme Est, e Israele.
Nonostante le differenze, molti di questi rapporti sono accomunati dall’adozione di un riorientamento di prospettiva che include la ricontestualizzazione della situazione attuale all’interno di un’analisi storica che va oltre il 1967 e il 1948, facendo eco al concetto palestinese di “ongoing Nakba”.
Riportare l’attenzione sulle radici storiche della “questione palestinese” suggerisce che descrivere la situazione in Israele e Palestina come una mera disputa territoriale è inadeguato e, al contempo, richiede di ridefinirla attraverso l’ottica del colonialismo d’insediamento, della discriminazione razziale e dell’apartheid. Molto prima che riemergesse nel discorso pubblico, diversi autori palestinesi, tra cui Fayez Sayegh ed Edward Said, hanno evidenziato il carattere coloniale del progetto sionista rilevando il suo obiettivo annessionista.
Questo cambiamento di discorso sta gettando nuova luce sulla natura strutturale, sistemica e asimmetrica della dominazione israeliana sui palestinesi, che va ben oltre gli estremi legali dell’occupazione militare. A sua volta, il cambiamento di paradigma comporta un superamento dei “negoziati di pace” a favore della decolonizzazione, la giustizia e l’autodeterminazione. Anziché mantenere lo status quo a solo vantaggio del regime coloniale, riconosce la necessità di affrontare le cause alla radice, di rimediare alle ingiustizie sistemiche e, nel pieno spirito del diritto internazionale, non compromette il diritto dei palestinesi all’autodeterminazione, al ritorno e alla resistenza.
Pertanto, il cambio di paradigma internazionale suggerisce che attribuire l’attuale recrudescenza della violenza al nuovo governo estremista sarebbe limitato, in quanto questo non costituisce un’anomala “deriva antidemocratica”, ma rappresenta l’ennesimo tassello nel progetto coloniale coltivato dai governi israeliani nel corso dei decenni.
Tuttavia, una differenza fondamentale nella corrente fase di attualizzazione del progetto di annessione risiede nei livelli amplificati di pubblicità, normalizzazione e formalizzazione. Gli attuali sviluppi in Israele e nella Palestina occupata dimostrano che non c’è mai stato un momento più urgente di questo perché l’UE risponda al campanello di allarme. Serve un’azione decisa e coraggiosa affinché si prenda atto della realtà dei fatti e si adotti una posizione ferma in difesa del diritto internazionale, che restituisca priorità alla de-occupazione, alla giustizia e all’autodeterminazione palestinese.
Ultima chiamata per l’Ue
In questo contesto, l’Ue sta timidamente manifestando il suo disappunto per la condotta israeliana ma le sue espressioni di condanna sono lungi dal rappresentare una correzione di rotta e risultano invece nei soliti tentativi acrobatici di evitare di riconoscere le responsabilità di Israele. Se l’Ue è davvero intenzionata a rilanciare un’iniziativa di pace in Israele-Palestina, dovrebbe fare i conti con l’inefficacia dell’approccio mantenuto sinora, smettere di mettere in secondo piano la causa palestinese e riconsiderare la realtà sul campo.
Il “pacchetto di sostegno alla sicurezza, all’economia e alla politica […] se le parti dovessero raggiungere un accordo di pace” è destinato a fallire, poiché finché Israele continuerà a perseguire impunemente i suoi obiettivi coloniali, non ci sarà mai alcun interesse israeliano a portare avanti una pace giusta ed equa e a garantire l’indipendenza dello Stato palestinese, a prescindere dall’orientamento politico del governo e da quanto l’Ue sia disposta a investire. Inoltre, i palestinesi non sono più disposti a compromettere il loro diritto all’autodeterminazione “in nome della pace”, poiché è evidente che tali compromessi hanno finora comportato la loro resa alla graduale annessione da parte di Israele senza portare alcun beneficio alla condizione in cui vivono.
Data la situazione e con il parere consultivo della Corte internazionale di giustizia sulla (il)legalità dell’occupazione richiesto dall’Assemblea generale dell’Onu all’orizzonte, l’attuale politica europea di differenziazione verso Israele-Palestina, così come è concepita e frammentariamente attuata dagli Stati membri, non è sufficiente. L’Ue ha il potere di fare di più: invece di utilizzare i programmi di finanziamento commerciali e di ricerca come strumento di trattativa per portare gli israeliani al tavolo dei negoziati, dovrebbe far leva sulla sua posizione per richiamare Israele alle sue responsabilità nel pieno rispetto del diritto internazionale dando priorità alle aspirazioni e ai diritti legittimi del popolo palestinese. Solo così l’Ue può sperare di raggiungere una soluzione duratura fondata sulla pace (positiva), la sicurezza (umana) e la giustizia non solo per i palestinesi, ma anche per gli israeliani.
Foto di copertina EPA/ALAA BADARNEH