Davvero Evgenij Prigozhin puntava a conquistare Mosca e defenestrare Putin con i 5 mila mercenari che erano giunti a 200 chilometri dalla capitale? È chiaro che il tentativo di colpo di Stato sarebbe riuscito solo se, sull’onda di quella che il capo della Wagner ha definito la “marcia della giustizia”, si fossero verificate significative defezioni fra le forze armate e una parte influente dell’establishment si fosse schierata dalla sua parte. Prigozhin ci sperava? Se è così, aveva fatto male i calcoli.
La resa dei conti
Non si sono registrati pronunciamenti politici di un qualche peso a favore di Prigozhin, neppure fra i più accesi nazionalisti, la gran parte dei quali, in realtà, non lo ha affatto in simpatia. I governatori regionali hanno rapidamente e all’unisono ribadito la loro fedeltà al capo del Cremlino, al contrario di quanto accaduto con il tentativo di colpo di Stato, pure esso fallito, del 1991. Né si è avuta notizia di altri ammutinamenti rilevanti nell’esercito. L’improvviso dietrofront della Wagner e l’accettazione da parte di Prigozhin di un accordo che, a prima vista, somiglia a una resa, sia pure negoziata, erano a quel punto scelte obbligate.
In realtà è stato il Cremlino a fare la prima mossa che ha scatenato la crisi quando ha ordinato a tutte le formazioni militari irregolari di sottomettersi entro il 1° luglio al ministero della Difesa. Prigozhin con le sue quotidiane filippiche contro i vertici militari, accusati di inefficienza, corruzione e spirito antipatriottico, era diventata una fonte continua di imbarazzo, una spina nel fianco che andava estirpata. Putin non poteva non sapere che questo avrebbe inevitabilmente portato alla resa dei conti. Messo con le spalle al muro, Prigozhin ha scelto di alzare la posta, lanciandosi in un’impresa improvvisata e superiore alle sue forze.
Un accordo in bilico
L’accordo che ha portato alla marcia indietro della Wagner prevede il suo scioglimento e l’integrazione dei mercenari nelle fila dell’esercito regolare – una loro subordinazione, quindi, al ministro della Difesa Sergei Shoigu, la bestia nera di Prigozhin – in cambio dell’immunità.
In realtà, al momento della stesura di questo articolo, restano molti interrogativi senza risposta sui dettagli e modalità di attuazione dell’accordo. Prigozhin ha dichiarato di aver ordinato ai suoi uomini di tornare nelle basi operative nell’Ucraina orientale. Ma molto difficilmente i miliziani della Wagner accetteranno l’inquadramento nelle truppe regolari e di mettersi alle dipendenze dell’odiato Shoigu. È anche improbabile che il capo della Wagner accetti di andare in pensione anzitempo: non sembra tipo da esilio dorato. Del suo annunciato viaggio in Bielorussia non ha fatto menzione nel suo ultimo – al momento – discorso a Rostov.
Ma come spiegare allora la sorprendente facilità con cui i miliziani della Wagner hanno preso il controllo del comando militare in una città grande e strategicamente importante come Rostov sul Don e sono arrivati indisturbati fino a Voronezh, altro centro nevralgico?
L’effetto sorpresa ha influito, gli uomini di Prigozhin erano di casa a Rostov e, in assenza, a quanto pare, di univoche disposizioni da Mosca, non è poi così strano che dall’esercito ci sia stata solo una timida reazione (pochi danno credito all’attacco missilistico denunciato da Prigozhin contro le postazioni della Wagner per giustificare la marcia verso Mosca). Ma quel che colpisce, appunto, è lo sbandamento e la confusione che sembra abbiano regnato nel Cremlino per almeno 24 ore dall’inizio della ribellione.
Putin certamente voleva evitare, in un momento di grande difficoltà per l’ “operazione militare speciale” in Ucraina, uno scontro sanguinoso con un gruppo come la Wagner di cui, per dirla con il portavoce della presidenza Dimitrij Peskov, il Cremlino ha “sempre rispettato le azioni eroiche”. Nel suo discorso televisivo alla nazione, Putin ha evocato lo spettro di uno scontro fratricida come quello innescato dalla rivoluzione bolscevica del 1917 che il presidente russo, nelle sue ardite ricostruzioni storiche, ha spesso additato come la scaturigine di tutti i mali della Russia contemporanea.
Duro colpo per Putin
Lo scontro con la Wagner è indubbiamente un duro colpo per Putin. La sua reputazione, così laboriosamente coltivata, di uomo forte, capace di tenere tutto sotto controllo, ne esce seriamente compromessa. Già erano venute in piena luce le gravi carenze delle forze armate russe; ora si è alzato il sipario anche sulle debolezze degli apparati di sicurezza interna. Le fortificazioni e le trincee anticarro erette in fretta e furia a Mosca in attesa dell’arrivo della Wagner non saranno dimenticate tanto facilmente. Come pure la perdita di controllo di città importanti come Rostov sul Don e Voronezh.
Nel suo discorso alla nazione Putin aveva annunciato una “punizione inevitabile” per i “traditori”, ma ha dovuto, dopo poche ore, rimangiarsi quella minaccia. È stato costretto a scendere a patti con un suo ex-subordinato, dimostrando di essere ricattabile, proprio lui che non ha esitato a liquidare i suoi avversari con i più diversi mezzi in patria e all’estero; una manifestazione di debolezza che potrebbe incoraggiare altri, oppositori o anche uomini e gruppi della sua cerchia, a metterlo sotto pressione o a sfidarne il potere. Anche la scelta di ricorrere ai buoni uffici del dittatore bielorusso Lukashenko, che notoriamente Putin disprezza, non ha certo contribuito, qualunque sia il vero significato di questa mossa, a trasmettere un’immagine rassicurante delle capacità del Cremlino di gestire le crisi.
Patto mefistofelico
Putin sembra aver perso, hanno notato in diversi, il monopolio dell’uso della forza. Ma questo era in realtà già avvenuto nel momento in cui il capo del Cremlino ha deciso di affidarsi a Prigozhin, dandogli meno libera per fare il lavoro sporco, con la Wagner, nei vari scenari di guerra. Nel contesto dell’aggressione all’Ucraina la scelta di dare spazio alla Wagner ha avuto una ragione ben precisa: Putin teme fortemente il potenziale effetto boomerang di una nuova campagna di reclutamento nell’esercito. L’impatto sul consenso popolare potrebbe essere devastante. I russi non sono disposti a morire in una guerra di cui non capiscono le ragioni e che si è risolta in un disastro militare dietro l’altro. L’unica alternativa era un patto mefistofelico con le milizie irregolari. E ora Putin ne sta pagando il prezzo.
È l’inizio della fine per il regime putiniano? È decisamente troppo presto per trarre questa conclusione. Anche se, non c’è dubbio, siamo di fronte alla più grave minaccia al potere di Putin in 23 anni di governo. Il Segretario di Stato Usa Anthony Blinken ha parlato di “crepe reali” in seno al Cremlino e ha fatto anche capire di non considerare conclusa la contesa Putin-Wagner, a cui, a quanto si è appreso, i servizi di intelligence americani avevano dedicato molta attenzione nelle settimane precedenti il tentato golpe, con frequenti briefing alla Casa Bianca.
Verso una crisi del regime?
Ci sono nuovi segnali visibili di un’ondata di malcontento popolare? Non possono certo essere presi come tali gli applausi e le ovazioni con cui una folla di cittadini ha salutato i miliziani della Wagner a Rostov (molti altri, certo di più, hanno lasciato la città per paura). Inoltre, il caos generato dal tentato golpe potrebbe aver vieppiù convinto una buona fetta di russi che Putin resta l’unica alternativa all’anarchia. Non a caso, il presidente russo ha incentrato il suo discorso alla nazione sul rischio di guerra civile. Molti si aspettano, comunque, un’ulteriore stretta repressiva e nuove purghe. Uno dei primi test riguarderà le strutture militari, potrebbero esserci in particolare significativi cambiamenti al vertice.
Al di là dei fattori più contingenti e di eventi drammatici, come il tentato golpe, il consenso per il regime dipenderà fortemente dagli sviluppi della guerra in Ucraina. Gli ucraini hanno visto nella recente crisi, dal punto di vista militare, una “finestra di opportunità” come si è espressa Hanna Malyar, viceministra della difesa, ed è naturale che ora pensino a intensificare gli attacchi prima che i russi si riorganizzino. La controffensiva ha i suoi tempi, difficilmente comprimibili, ma le truppe russe al fronte sono certo a conoscenza di quel che è successo e, in particolare, il caos e l’indecisione negli alti comandi non può non avere avuto un ulteriore effetto depressivo sul loro morale.
Ma, come detto, un impatto ancor maggiore potrebbe avere un’eventuale decisione di avviare una nuova campagna di reclutamento. Di fronte a nuovi rovesci militari, Putin potrebbe essere costretto a ricorrervi. Nel più lungo termine non si può escludere un peggioramento delle condizioni di vita dei cittadini russi a causa, in particolare, di un ulteriore calo del prezzo delle materie prime energetiche dalle quali la Russia continua a rimanere fortemente dipendente. È questo, non va dimenticato, uno dei fattori che storicamente ha più inciso sul destino dei vari regimi che si sono succeduti a Mosca.
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