A ormai un anno dalla guerra intrapresa da Putin contro l’Ucraina, una prospettiva diversa andrebbe dedicata al fronte interno russo, grazie a una ricognizione dell’open source intelligence e al di là dell’apparente facciata monolitica del regime e dei sondaggi ufficiali. Il malcontento non serpeggia solo tra i gruppi clandestini dell’opposizione, ma emergono anche in maniera eclatante sui social, negli stessi ambienti militari, tra diverse categorie professionali e nelle aule giudiziarie.
Le stime del dissenso
È sufficiente scorrere ad esempio le pagine web del sito di OVD-Info, una ong indipendente la cui denominazione si rifà alla sigla del Dipartimento degli affari interni e assicura assistenza legale gratuita alle vittime della repressione. Due dati vengono ad assumere rilievo: il primo concerne i 19.335 casi censiti di persone incriminate dal regime in manifestazioni contro la guerra dal 24 febbraio 2022 e i 48 processi penali che dovranno celebrarsi nella sola prossima settimana; il secondo riguarda l’analisi sull’applicazione del fatidico articolo 20.3.3 del Codice degli illeciti amministrativi – che sanziona le forme di discredito delle forze armate della Federazione Russa, prevedendo multe variabili da un minimo di 50 mila rubli fino a 500 mila per persone fisiche e giuridiche – dove “i giudici spesso si schierano con i cittadini accusati”. Oltre 500 casi sono stati archiviati, per cui vi sarebbe solo 1 caso su 9 denunciati in cui viene comminata una sanzione.
Un altro aspetto riguarda invece il lungo elenco di oppositori che il regime ha censito sulla base della norma sul “registro unificato degli agenti stranieri” del Ministero della Giustizia: l’elenco è costantemente integrato e indica una pletora di singoli cittadini e varie organizzazioni, ritenute “indesiderate” o “estremiste”, che comprendono associazioni di emigrati, comunità Lgbt, testate giornalistiche movimenti ambientalisti, filosofi, blogger, giornalisti e intellettuali di varia formazione.
La petizione per la liberazione di Navalny
L’ultima forma di dissenso più eclatante sembra emergere in questi giorni da un gruppo di 600 medici, avvocati, e rappresentanti di assemblee parlamentari dei vari livelli federali, che hanno sottoscritto una petizione rivolta al presidente Putin per ottenere la liberazione di Alexei Navalny, aderendo all’appello promosso sui social dalla figlia Dasha con la campagna #FreeNavalny.
Finora il sostegno al dissenso di Navalny non aveva avuto molti consensi anche in Occidente, perché la figura dell’ avvocato oppositore di Putin è controversa per i suoi trascorsi vicini all’ultra-nazionalismo russo e ai movimenti xenofobi, che lo portarono ed espressioni discriminatorie nei confronti dei musulmani del Caucaso e finanche ad appoggiare la guerra in Georgia del 2008. Le fasi più recenti della sua opposizione si sono poi spostate sul denunciare la corruzione della nomenclatura e le violazioni alla Costituzione.
Oggi Navalny è assurto a simbolica vittima del regime, essendo recluso da due anni, nonostante una grave aritmia cardiaca e le conseguenze dei due attentati con agenti tossici i cui autori sono rimasti sconosciuti. Avvelenato per ultimo nel 2020 con l’agente nervino novichok, il 17 gennaio 2021 dopo un ricovero a Berlino, Navalny è ritornato in Russia per continuare le cure in famiglia. L’arresto scatta in aeroporto da parte degli agenti dell’ Fsb, il Servizio di Sicurezza Federale russo, che lo traggono in arresto per il “caso Yves Rocher”. Indagini indipendenti condotte in Francia ipotizzano che il rappresentante russo della industria di cosmetici, poi licenziato dalla casa madre, si sarebbe prestato alle note agenzie russe per sostenere una falsa accusa di appropriazione indebita nei confronti di Navalny.
Altri processi sono avviati in Russia e Navalny rischia condanne fino a 35 anni di reclusione. Sta di fatto che accanto all’oppositore si è diffuso un ampio sostegno, ora testimoniato anche dall’adesione di Hilary Clinton, l’ex Segretario di Stato americano che così si è espressa: “Alexei Navalny è un faro di speranza per la democrazia in Russia, e in tutto il mondo oggi rappresenta il volto dell’opposizione contro Putin”. In ogni caso c’è un dato di assoluto rilievo che va preso in considerazione: nel regime c’è un frammento significativo della società civile che emerge per rivendicare principi di diritto e libertà. Il sito freenavalny.com ha raccolto migliaia di firme, e richiama le lettere aperte di seicento tra medici e avvocati russi, e di 50 deputati delle varie assemblee.
Negli appelli si richiamano i diritti alla salute e alla libertà di espressione garantiti dagli articoli 18 e 31 della Costituzione, e gli avvocati denunciano: “Dal punto di vista giuridico, la società sta assistendo a comportamenti provocatori da parte dello Stato nei confronti di un cittadino della Federazione Russa che evidenziano l’uso della tortura, che è proibita in tutti i paesi civili del mondo. Poiché tutto il potere nella Federazione Russa è concentrato nelle vostre mani, siamo costretti a fare appello a voi. Noi, gli avvocati che hanno firmato questa lettera, ci uniamo ai medici russi nel chiedere che si ponga fine agli abusi su Alexey Navalny”.
Le tante voci del dissenso
Le voci del dissenso sono però più vaste della vicenda Navalny, specie ora che l’andamento della guerra in Ucraina comincia a porre tanti interrogativi al regime di Putin. Un caso emblematico ha riguardato il caso del tenente Dmitry Vasilets che si è rifiutato di partecipare al conflitto, di cui ha dato notizia il sito indipendente Meduza. È stato reso noto il rapporto in cui l’ufficiale di 27 anni esordisce con le parole: “Io, il tenente anziano Dmitry Vasilets, sono un militare delle forze armate della Federazione Russa. Vorrei attirare l’attenzione sul fatto che sono anche un essere umano e un cittadino”.
Molti analisti sono perciò convinti che le ripercussioni della mobilitazione russa, che ora punterebbe a reclutare complessivamente 500 mila coscritti, si stanno rilevando problematiche per il regime di Putin, al di là della propaganda sulle molte adesioni volontarie. Si parla di forme di mobilitazione strisciante, dove il quadro giuridico è poco chiaro, basato su un sistema di ordini discendenti delle autorità militari e dei governatori regionali, cui fanno seguito azioni estese di controllo, specie nelle aree rurali. In cinque parlamenti regionali, tra cui quelli di Mosca e San Pietroburgo, alcuni rappresentanti della minoranza hanno rivolto una petizione al presidente Putin perché venga emanato un ordine preciso di conclusione della mobilitazione, e solo in questi giorni il Cremlino pare si sia persuaso a confermare che la mobilitazione non è ancora conclusa.
C’è poi da segnalare l’esodo dei russi in età di coscrizione in Europa e nei paesi asiatici vicini: Bloomberg li ha stimati in 400 mila ad ottobre, mentre per l’Istituto Affari Internazionali a novembre sarebbero già 1 milione.
Le conseguenze interne della guerra
Lo sviluppo in atto della guerra in Ucraina può dunque rappresentare un serio problema per Putin, per cui i critici del regime vengono perseguiti con rappresaglie nelle carriere, la stigmatizzazione pubblica e l’arresto per essersi opposti alla guerra, come è accaduto anche per Ilya Yashin, un importante politico dell’opposizione, condannato a otto anni e mezzo di carcere per aver discusso del massacro di Bucha.
In questa prospettiva è difficile prevedere la diffusione ulteriore del dissenso o del solo malcontento, ma la circostanza che essi riguardino diversi contesti sociali dove è evidente anche un certo livello culturale – riferito appunto a ufficiali, medici, avvocati e deputati eletti nelle assemblee – non può che preoccupare Putin.
Altri segnali di un parossistico clima di tensione interna provengono dalla stessa nomenclatura vicina a Putin, dove si succedono continui cambiamenti nei vertici e contrapposizioni contro le gerarchie ufficiali di varie componenti più oltranziste, come quelle dei veterani, del gruppo Wagner dell’oligarca Yevgeny Prigozhin, e dei ceceni del “macellaio” Razman Kadyrov. Anche le continue accuse all’Occidente e le ultime minacce di Dmitry Medvedev, ex presidente della Federazione Russa e oggi vice capo del Consiglio di Sicurezza, secondo cui “le potenze nucleari non hanno mai perso le guerre da cui dipende il loro destino” alla fine non fanno che confermare che i russi hanno seriamente paura di poter perdere la guerra.
Si parla di oltre 100 mila vittime complessive tra le forze contrapposte. In un solo anno di guerra la Russia ha pagato un costo ben superiore ai 10 anni di guerra condotta in Afghanistan, in cui si sono contati 26mila morti tra le forze sovietiche, di cui 15mila in azioni specifiche di combattimento. Anche in Russia potrebbe diffondersi la convinzione secondo cui è Putin stesso l’artefice di quella che allo stato già si presenta una sconfitta strategica.
Foto di copertina EPA/MIKHAIL METZEL / SPUTNIK