E dire che sembrava fosse tutto pronto al tentativo di distensione. A inizio febbraio Antony Blinken era pronto a viaggiare alla volta di Pechino, primo segretario di Stato con in agenda un incontro con Xi Jinping dai tempi di Rex Tillerson nel 2017. Prima della guerra commerciale e della guerra fredda tecnologica, prima dell’innalzamento delle tensioni su Taiwan e dell’ampliamento a tutto campo della contesa tra le due potenze.
Il termometro delle relazioni
All’inizio del 2023, la Cina aveva dato qualche segnale di disponibilità al dialogo. La promozione di Qin Gang al Politburo e direttamente al ruolo di ministro degli Esteri, evento più unico che raro per un diplomatico come l’ex ambasciatore cinese a Washington. Poi il demansionamento di Zhao Lijian, che da portavoce del ministero degli Esteri era diventato forse il principale simbolo della diplomazia dei “lupi guerrieri” lanciata da Pechino qualche tempo fa. Anche la diminuzione delle manovre militari sullo Stretto di Taiwan lasciava presagire una qualche volontà di distensione con Washington. Con l’obiettivo non certo di trovare grandi accordi o trasformare la competizione in partnership, ma quantomeno di fissare dei paletti per evitare che il confronto potesse trasformarsi in qualcosa di più rischioso.
Poi sul terreno di gioco è apparso un pallone, poche ore prima del previsto arrivo a Pechino di Blinken. La prima reazione cinese è stata più contenuta del solito, con l’espressione di un “rammarico” che non trova sovente spazio nella comunicazione diplomatica della Repubblica Popolare. Il tentativo era stato quello di salvare la visita di Blinken, che è stata invece rinviata a data da destinarsi. Da lì in poi il grado delle tensioni è tornato ad alzarsi, con il governo e l’esercito cinese che si sono riservati di reagire in modo analogo a “episodi simili”. Il pensiero corre subito alle numerose manovre di ricognizione di jet e navi statunitensi nei pressi del territorio cinese e dei potenziali punti di tensione dell’Asia-Pacifico, tra Taiwan e mar Cinese meridionale.
La cancellazione della visita di Blinken, e in generale la reazione americana a quello che la Cina ha insistito nel presentare come un “incidente non voluto” e riguardante un aeromobile impegnato in ricerche meteorologiche, ha convinto il Partito comunista che a Washington qualcuno (in primis il Pentagono) voglia sabotare il dialogo. Il riferimento, implicito e non è a quanto accaduto lo scorso agosto, quando la visita a Taipei di Nancy Pelosi fece saltare le linee di comunicazione in un momento dove invece Usa e Cina si stavano parlando. Suscitando anche qualche insofferenza da parte russa.
Il mancato riavvio del dialogo ad alti livelli non potrà che esacerbare le tensioni. La Cina si sente accerchiata dalle manovre che gli Usa stanno operando in Asia-Pacifico, sia sul fronte tecnologico sia su quello militare. Pechino si lamenta per le nuove restrizioni all’esportazione di tecnologia avanzata per la produzione di semiconduttori dopo l’ok di Giappone e Paesi Bassi a Joe Biden. Mossa alla quale il governo cinese sta pensando di rispondere col controllo delle esportazioni della componentistica necessaria alla fabbricazione dei pannelli solari.
Taiwan e il Mar Cinese meridionale
Ma la partita più delicata è quella militare. A gennaio, il segretario generale della Nato Jens Stoltenberg è andato in Corea del Sud e Giappone. A Tokyo, il leader dell’Alleanza Atlantica ha invece esplicitamente collegato il fronte europeo a quello orientale, sostenendo che quanto sta accadendo oggi in Ucraina potrebbe accadere domani in Asia. Con in mente, ovviamente, la Cina. I due vicini orientali di Pechino sono sempre più nell’orbita di Washington e Nato. Una tendenza accelerata dall’invasione russa. Il Giappone ha modificato la sua strategia di difesa, abbandonando in parte alcuni tabù imposti dalla costituzione pacifista del dopoguerra. Il 13 gennaio, il premier Fumio Kishida ha confermato l’elevazione della partnership militare con gli Usa direttamente dalla Casa Bianca.
Non solo. Il segretario alla Difesa Lloyd Austin è andato a Manila, dove ha sottoscritto un accordo con le Filippine per garantirsi il libero accesso a quattro nuove basi militari sul territorio dell’ex colonia, in aggiunta alle precedenti 5. Mossa dal valore strategico, vista la prossimità ai due principali teatri di potenziali crisi nell’area: Taiwan e mar Cinese meridionale. Ma il valore è anche politico. Se Pechino dava già parzialmente per “persi” Giappone e Corea del Sud. Rodrigo Duterte aveva riorientato la postura filippina verso la Cina. Washington si è riproiettata anche nel Pacifico meridionale, riaprendo a distanza di 30 anni l’ambasciata nelle Isole Salomone (finite nel mirino della Casa Bianca per l’accordo di sicurezza con Pechino sottoscritto nel 2022) e ampliando gli accordi di natura militare con gli Stati Federati di Micronesia e Papua Nuova Guinea.
Quanto avvenuto a margine della Conferenza sulla Sicurezza di Monaco di Baviera ha reso evidente che non solo le due potenze non riescono a capire come parlarsi, ma che si stanno sfidando in modo molto duro a livello politico e retorico. Wang Yi, neo direttore dell’Ufficio della Commissione centrale per gli Affari esteri del Partito comunista, ha svolto un tour tra Francia, Italia, Germania e Ungheria nel quale ha presentato gli Stati Uniti come principale ostacolo ai negoziati di pace tra Ucraina e Russia.
Il tentativo del diplomatico cinese è stato quello di creare qualche dubbio nei governi europei, desiderosi di rafforzare la partnership commerciale con Pechino, suggerendo che la principale minaccia per il vecchio continente sia il protezionismo commerciale di Washington, nonché la sua “mentalità da guerra fredda”. Blinken, che ha avuto un breve e duro scambio con Wang a margine dei lavori in terra tedesca, ha invece espresso il timore che il governo cinese possa rifornire la Russia di armi. Un sospetto per ora non suffragato da fatti concreti e smentito da Pechino, che ha però avuto l’effetto di richiamare l’attenzione dei partner europei e “squalificare” in partenza la proposta di pace cinese sull’Ucraina, in realtà una reiterazione della prospettiva già espressa varie volte (seppur con diverse modulazioni) sul conflitto.
Da Tik Tok al Covid-19
I motivi di scontro si stanno moltiplicando in queste settimane. Ai dipendenti federali statunitensi è stato vietato l’uso di TikTok alla fine dello scorso anno, ma il 27 febbraio la Casa Bianca ha dato alle agenzie governative 30 giorni per eliminare l’app controllata dalla cinese ByteDance dai sistemi. Nonostante la maggior parte delle app occidentali sia vietata in Cina, il governo di Pechino ha utilizzato la vicenda per ribadire la postura “protezionista” di Washington.
Torna d’attualità anche la polemica sull’origine del virus. Il Dipartimento dell’Energia americano è giunto alla conclusione che la pandemia è molto probabilmente nata da un incidente di laboratorio. Una teoria derivante da nuovi dati e informazioni di intelligence. Anche il direttore dell’Fbi Christopher Wray ha rilanciato in un’intervista a Fox News l’ipotesi dell’incidente nel laboratorio di Wuhan, metropoli cinese primo epicentro della pandemia. La Cina parla di “manipolazione politica” e ritiene l’intelligence americana non credibile: “Gli Stati uniti non riusciranno a screditarci, ma danneggeranno solo la loro reputazione”, ha dichiarato il ministero degli Esteri, rilanciando poi la teoria opposta, secondo la quale il virus sarebbe fuoriuscito dalla base biomilitare di Fort Detrick nel Maryland. E chiedendo dunque a Washington di collaborare con l’Oms per condurre un’indagine sul suo territorio.
Taiwan al centro dello scontro diplomatico
Lo scontro sembra insomma aver invaso anche la sfera retorica, con Pechino che prova ad andare in contropiede sull’Europa stanca della guerra e Washington che prova a mettere il rivale all’angolo. Non è comunque escluso che nei prossimi mesi possa esserci un nuovo colloquio telefonico tra Biden e Xi, anche se il cosiddetto “consenso tra leader” non sembra più garanzia di distensione nella prospettiva cinese.
La possibile visita della Commissione speciale sulla Cina del Congresso americano a Taiwan potrebbe ulteriormente accendere gli animi, in seguito a quella di Michael S. Chase (alto ufficiale del Pentagono) sempre a Taipei e quella di due importanti componenti del governo taiwanese (il ministro degli Esteri Joseph Wu e il consigliere alla sicurezza nazionale Wellington Koo) a Washington. Resta non programmata la visita di Kevin McCarthy, speaker repubblicano e successore di Pelosi. Si era parlato del suo arrivo a Taiwan il prossimo aprile, ma secondo le ultime indiscrezioni non dovrebbe presentarsi prima di agosto o direttamente del 2024. Una finestra di tempo che Usa e Cina potrebbero cercare di usare per fissare quei paletti che per ora sono rimasti in sospeso. Rendendo i confini della contesa più labili e dunque più pericolosi.
Foto di copertina EPA/XINHUA / Li Xueren CHINA OUT