Il 24 novembre, il viceministro degli esteri israeliano, Idan Roll, annunciava su Twitter la decisione di annullare diversi incontri istituzionali previsti in Belgio, in quanto la decisione del governo di Bruxelles di “etichettare prodotti provenienti da Giudea e Samaria rafforza gli estremisti [e] non aiuta a promuovere il processo di pace”.
Di più, il ministero degli esteri israeliano affermava che la decisione di etichettare i prodotti delle colonie nei territori occupati nuoce agli israeliani quanto ai palestinesi e si scontra con la politica del neo-governo israeliano “impegnata a migliorare le vite dei palestinesi”, così come con gli sforzi volti a migliorare i rapporti bilaterali con l’Europa.
Ue, differenziazione ed etichette
Nel 2015, la Commissione Europea pubblicava una nota in cui esplicitava l’obbligo di corretta ‘etichettatura’ per i prodotti delle colonie israeliane venduti nell’Unione. Costruiti in violazione del diritto internazionale, gli insediamenti in territorio occupato non fanno parte del territorio dello stato di Israele, per cui le merci lì prodotte devono essere facilmente identificabili dal consumatore europeo – attraverso, appunto, etichette corrette – e non possono godere delle stesse agevolazioni di accesso preferenziale al mercato europeo riservate ai prodotti israeliani.
La nota del 2015 è l’ultima tra le misure adottate a livello europeo nel quadro più ampio delle “politiche di differenziazione” – paradigma oltretutto accolto dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite nel 2016. In questo senso, l’Unione si starebbe impegnando, in virtù di vigenti obblighi internazionali e regole di diritto comunitario, a differenziare tra Israele e le sue colonie illegali nel quadro dei rapporti bilaterali con lo stato israeliano.
Di tanto in tanto, la politica di differenziazione, e, in particolare, la questione delle etichette, riemergono e, come in questo caso, tornano a far discutere. Si sono susseguite denunce sulla presunta inutilità di tali misure, insieme ad accuse di discriminazione economica, così come preoccupanti insinuazioni per cui tale etichettatura equivarrebbe ad una sorta di “nuova stella gialla” riservata solamente ai prodotti ebraici.
La stessa Corte di Giustizia Europea si è però espressa sulla questione, ribadendo, nel 2019, l’obbligo di corretta indicazione dell’area di origine. Secondo la corte, le merci prodotte negli insediamenti israeliani non possono essere certificate come provenienti da Israele in quanto questa informazione sarebbe “inesatta e ingannevole” per il consumatore europeo. Quest’ultimo deve infatti essere posto nelle condizioni di effettuare una valutazione anche di natura etica: acquistare o meno un prodotto originario da un insediamento illegale?
Il documento della discordia
La reazione di Roll sembrerebbe scaturire dalle conclusioni raggiunte da un gruppo di lavoro intergovernativo, costituito lo scorso maggio dal governo belga e volto al potenziamento della politica di differenziazione nei confronti Israele.
Per cui, come prontamente ricordato da un portavoce del governo di Bruxelles, il Belgio non ha deciso recentemente di attuare le politiche di differenziazione (e più specificatamente la regola sulle etichette) – come invece sembra trasparire dalle parole del viceministro israeliano. Piuttosto, vista la limitata applicazione del paradigma di differenziazione nelle relazioni bilaterali Belgio-Israele – come anche ammesso dalla ministra degli esteri –, la decisione è di potenziare una politica già in precedenza adottata, ma mai implementata a pieno.
I punti considerati nel documento sono quanto mai salienti. Dai riferimenti al database Onu sulle compagnie che operano negli insediamenti israeliani, all’affermazione che i trattati bilaterali futuri conterranno una “clausola territoriale”, per cui l’applicazione sarà limitata ai territori dello stato israeliano – e non ai territori occupati dal 1967. Chiaro è il riferimento all’importazione dei prodotti provenienti dagli insediamenti israeliani e la necessità di rafforzare il controllo sull’étiquetage. Si esplicita inoltre l’urgenza di rivedere il traballante sistema europeo attraverso il quale si dovrebbe garantire che i prodotti degli insediamenti illegali non godano del trattamento preferenziale applicato invece ai prodotti propriamente israeliani.
Il governo belga menziona oltretutto la registrazione di una “Iniziativa dei Cittadini” volta a incoraggiare la Commissione europea a presentare una proposta volta a impedire gli scambi commerciali con insediamenti illegali in territori occupati – applicabile, quindi, tanto ai territori occupati in Palestina, quanto al Sahara Occidentale. A questo proposito, molti attori della società civile, così come esperti di diritto internazionale, denunciano i rapporti commerciali con le colonie israeliane come una violazione di diritto internazionale.
Nelle parole del Relatore speciale Onu per la situazione dei diritti umani nel territorio palestinese: “la comunità internazionale non può chiamare questi insediamenti illegali […] e tuttavia fornire loro i mezzi economici per prosperare”. In questo senso, molti lamentano come la politica delle etichette sposti essenzialmente l’onere e gli obblighi di diritto internazionale dagli Stati al consumatore: quest’ultimo è infatti posto di fronte alla scelta se acquistare o meno una merce il cui accesso all’interno del mercato europeo continua ad essere garantito, nonostante il diritto internazionale, come quello comunitario, sancisca l’illegalità del luogo in cui è prodotta.
Le critiche israeliane nei confronti del governo belga, ultimo tra i recenti sviluppi che demarcano un’innegabile continuità tra il neo-governo israeliano e quelli precedenti, sfida ulteriormente una diplomazia europea poco credibile nel contesto israelo-palestinese. In questo senso, sarebbe auspicabile un intervento della Commissione europea volto a ribadire il dovere degli Stati membri di distinguere tra Israele e le sue colonie nei territori occupati, anche considerando la limitata implementazione del paradigma di differenziazione nella stragrande maggioranza dei rapporti bilaterali tra gli stati europei e Israele.
Inoltre, l’episodio potrebbe offrire all’Ue un’opportunità: rilanciare la propria credibilità, proprio ripartendo dal potenziamento della politica di differenziazione. I limiti delle attuali misure sono evidenti, visto quanto sancito dal diritto internazionale e comunitario. Un rinnovato impegno su questo fronte è dovuto e segnalerebbe altresì l’intenzione da parte dell’Unione di voler concretamente affrontare la questione degli insediamenti illegali in territorio occupato, da decenni considerati dallo stessa Ue come il “maggiore ostacolo per il raggiungimento di una soluzione a due stati e di una pace giusta e duratura”.
Foto di copertina EPA/ABIR SULTAN