22 Dicembre 2024

I tempi ‘geopolitici’ dell’unità europea

A seguito dell’invasione russa dell’Ucraina, si è registrata tra i 27 Stati membri dell’Unione Europea (Ue) un’unità d’intenti e soprattutto di vedute rara, considerando i maggiori eventi di politica internazionale degli ultimi anni.

L’allineamento storico dei governi europei

Questo allineamento può essere considerato storico alla luce di due fattori. Il primo è il costo pesante che – forse per la prima volta – viene chiesto di pagare ai governi nazionali a vantaggio di una posizione comune europea. Per qualche Stato questo sacrificio è in primis politico perché mette in discussione vecchi assiomi di politica estera, come il neutralismo o l’adozione di un basso profilo nel campo della sicurezza e della difesa. Per altri è, invece, soprattutto economico e richiede un ripensamento dell’intero sistema nazionale delle catene del valore o dell’approvvigionamento energetico. In alcuni casi, come quello tedesco, il prezzo richiesto è su entrambi i fronti.

Il secondo motivo per cui la sintonia dei 27 è rimarchevole è la tempistica. L’Unione Europea è stata spesso accusata, come in occasione dell’emergenza pandemica, di reagire agli eventi invece che governarli. La sua lentezza e l’apparente ‘bizantinismo’ di alcuni processi decisionali hanno spinto diversi movimenti populisti ad accusare Bruxelles di eccessiva burocratizzazione e, in ultimo, di inefficienza.

Nel caso delle sanzioni alla Russia questo non si è potuto dire: dall’inizio dello sconfinamento dei carri armati russi in direzione di Kyiv all’approvazione del primo pacchetto di sanzioni da parte del Consiglio sono passate, infatti, meno di 24 ore. Anche se la tempestività di tale decisione è in parte certamente imputabile al fatto che essa andava ad inserirsi nel filone di un procedimento sanzionatorio già iniziato nel 2014, questo nulla toglie alla coerenza politica dell’azione congiunta di Consiglio e Commissione. Molti osservatori si sono stupiti di questo “cambio di passo”, arrivando a definire l’assenza di divisioni a Bruxelles come la prima sconfitta per Mosca, ancor prima che le vittorie militari ucraine arrivassero sul campo.

Un lungo processo storico

In realtà, l’unità d’intenti europea non si è concretizzata improvvisamente, ma è frutto di uno sforzo decennale, non sempre tangibile ma che non dovrebbe essere sottovalutato, da parte di tutti gli Stati di allineare indirizzi di politica estera spesso divergenti nei confronti delle crisi internazionali. L’unità europea, figlia del compromesso (o della non belligeranza) tra Stati membri, si è ottenuta talvolta con enormi difficoltà, per esempio nel caso delle Primavere arabe e del conflitto in Libia, e talaltra più facilmente costruendo una narrativa comune, come accaduto con il JCPOA o gli accordi di Minsk.

In tal senso, la risposta di oggi deriva sia da un lento processo storico che passa da vistosi fallimenti sia della volontà politica di far giocare all’Unione, almeno sul continente, finalmente un ruolo di prima linea. Appare facile, in altre parole, definire la solidarietà intra-Ue sull’Ucraina nel 2022 come il riscatto di quanto avvenuto durante la dissoluzione dell’ex-Jugoslavia, quando gli europei non erano riusciti, per mancanza di strumenti ma soprattutto di esperienza nell’“europeizzare” la propria politica estera, a prendere una posizione forte sul conflitto.

Il fatto che l’Ue abbia in parte soddisfatto le proprie ambizioni “geopolitiche” (citando un termine che sembra caro non solo all’ attuale Commissione ma a tutti gli analisti dei nostri tempi) aiutando l’Ucraina non significa che non ci siano importanti questioni di politics e di policy da osservare attentamente e la cui evoluzione resta incerta.

Una posizione in prima linea per la Commissione

Un tema irrisolto resta, ad esempio, quello dell’evoluzione del rapporto politico tra le istituzioni Ue e tra queste ultime e gli Stati membri. Non è sfuggito, infatti, agli osservatori più attenti che, sebbene ci si muova sia nel contesto sanzionatorio sia nel coordinamento diplomatico all’interno del quadro Pesc, la Commissione sembra avere un ruolo molto più proattivo delle altre istituzioni arrivando di fatto a fungere da crocevia decisionale e assicurando così coerenza tra le diverse misure intraprese a sostegno dell’Ucraina.

Si possono citare a questo riguardo molti esempi: dal negoziato per congelare gli asset russi in Europa al contenuto dei cinque pacchetti di sanzioni, fino all’ultima battaglia per uscire dagli accordi petroliferi. Insieme a questo, non si possono omettere i molti gesti altamente simbolici compiuti da Ursula von der Leyen per delineare chiaramente la posizione della Commissione sul conflitto in corso, come l’emblematica visita a Kiev del mese scorso o l’apertura all’allargamento verso i tre candidati del Partenariato Orientale.

La posizione della Commissione oggi è perfettamente opposta a quella del 2014, quando l’allora presidente Barroso aveva tentato una linea di equidistanza e di basso profilo in occasione della crisi in Donbass, mettendo, tuttavia, in guardia su come Putin fosse pronto a prendere l’Ucraina “in due settimane” in caso di mancato accordo (un’affermazione che tra l’altro prefigura tragicamente l’errore di valutazione compiuto dalla Russia lo scorso febbraio).

Un’altra indubbia novità rispetto al passato è la scelta di coinvolgere l’Ue in un dominio di hard power tradizionalmente appannaggio degli Stati come l’invio di armi. Su questo si segnala certamente l’attivismo del Consiglio e del suo presidente Charles Michel, a cui è spettato il delicato compito di tenere, per conto delle istituzioni Ue, i rapporti con Vladimir Putin e di trovare al contempo il consenso dei 27 sulla procedura da seguire per gli aiuti militari.

Alcune scelte storiche, come quella di affidare all’European Union Military Staff (EUMS) un ruolo nella selezione degli armamenti utili per le forze armate ucraine o di usare i fondi dello European Peace Facility per passare sistemi da un Paese all’altro, dimostrano una flessibilità di compiti e strumenti che non si credeva possibile fino a pochi mesi fa e che è stata realizzata solo grazie alla volontà di muoversi ad un livello superiore al Coreper. Ma è proprio il rapporto tra il “centro” e la “periferia” dell’Ue il tassello potenzialmente debole del circolo virtuoso che, in occasione del conflitto ucraino, sembra essersi creato.

Una sintonia fragile

Il primo pericolo è che la sintonia europea sia messa alla prova, ancora una volta, dalla scarsa credibilità dell’Ue come organismo capace di assicurare copertura in caso di shock asimmetrici. Questi shock possono essere militari o economici, ma in entrambi i casi portano i cittadini europei a dubitare dell’esistenza dell’Ue come attore politico. Il fatto che Paesi come la Finlandia e la Svezia non si sentano tutelati dall’Ue nella propria sicurezza e sentano di dover ricorrere alla Nato, o che la Germania, l’Italia e l’Ungheria dubitino che si possa arrivare a una solidarietà energetica e quindi tergiversino su un ulteriore inasprimento delle sanzioni, sono tutti fattori che indeboliscono la posizione negoziale delle istituzioni comunitarie.

Il secondo pericolo è invece il protagonismo degli Stati membri. Questi ultimi, comprensibilmente anche alla luce di quanto detto, appaiono sempre tentati da spinte centrifughe di protagonismo o fine a sé stesso o, ancor peggio, animato da altri fini.

Questo pericolo riguarda Paesi “centrali” dell’Unione come la Francia, dove l’Eliseo ha ereditato la posizione di interlocutore privilegiato del Cremlino dopo le dimissioni di Angela Merkel, e in egual modo Stati “periferici” come la Polonia e l’Ungheria, con posizioni diametralmente opposte sull’Ucraina ma ugualmente interessate a marcare un proprio distinguo rispetto a Bruxelles. Proprio la frammentazione nazionale, ultimo e, ad oggi, inevitabile tallone d’Achille della Pesc, potrebbe tuttavia essere al centro delle prossime riforme in Europa.

Il Parlamento di Strasburgo la scorsa settimana ha infatti approvato le raccomandazioni finali della Conferenza sul futuro dell’Europa; tra queste, un punto centrale è l’abolizione dell’unanimità del Consiglio e un processo decisionale meno parcellizzato sulle grandi decisioni di politica estera. I parlamentari hanno ipotizzato una riforma dei Trattati che inevitabilmente – dati i tempi – metterebbe la (geo)politica internazionale al centro, stabilendo nuovi meccanismi e nuove competenze per gli organi di Bruxelles. Se veramente una riforma di questa portata è all’orizzonte, i rapporti di potere interni ed esterni di questi mesi sembrano particolarmente significativi e destinati a segnare il futuro dell’Unione.

Foto di copertina EPA/STEPHANIE LECOCQ

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