Il tanto atteso – e tante volte rinviato – discorso di Vladimir Putin alle camere riunite, un appuntamento saltato nel 2022 nonostante sia un preciso obbligo costituzionale del presidente russo, doveva finalmente dare ai russi, popolo ed elite, delle idee e degli obiettivi chiari: cosa è la guerra che un anno prima aveva lanciato contro l’Ucraina, quali obiettivi si pone, quale vittoria (o almeno non sconfitta) persegue, con quali strumenti dovrebbe venire condotta e quando (almeno nelle intenzioni) finire.
Le accuse all’occidente
Alla vigilia dell’intervento del presidente per Mosca giravano le ipotesi più estreme: dal licenziamento del governo e dei vertici militari alla proclamazione della mobilitazione totale della popolazione e dell’economia, passando per l’annuncio di una nuova Unione formata con l’annessione della Bielorussia insieme alle enclave georgiane Ossezia del Sud e Abkhazia. Nessuno degli osservatori aveva scommesso sull’annuncio di una tregua e/o di un processo negoziale, e solo pochi avevano azzardato la previsione che Putin alla fine non avrebbe prodotto nulla di nuovo.
Hanno avuto ragione questi ultimi: tranne la coda finale, con l’annuncio a sorpresa della “sospensione” del trattato sugli armamenti strategici New Start, il discorso del presidente è stato una ripetizione di tante altre sue esternazioni, costruite tutte secondo lo stesso schema della difesa delle proprie ragioni, mischiata al risentimento per l’occidente. Non poteva mancare il passaggio sulle perversioni sessuali dell’Europa, dove “la pedofilia è normale”, e sul complotto storico contro la Russia, iniziato con “il progetto austroungarico di strappare le terre russe già nell’Ottocento” e proseguito con l’affermazione che “è stato l’occidente ad aver allevato la Germania nazista”.
Nulla cambia
Molto spazio è stato dedicato ai successi russi, con elogi a una economia che avrebbe resistito alle sanzioni, e a nuove promesse di welfare, con aumento del salario minimo e l’istituzione di un fondo sociale per i militari. Non è chiaro con quali soldi il Cremlino dovrà pagare questi benefit, visto che a febbraio le spese del governo russo hanno superato le entrate di ben cinque volte, con un deficit da record. In compenso, Putin ha lanciato anche messaggi di distensione: ha promesso di non prendere misure contro i russi scappati dal suo regime all’estero, deludendo i falchi della Duma che facevano a gara a proporre punizioni che andavano dalla confisca dei beni in patria alla prigione per tradimento. E ha assicurato che le elezioni, governatoriali e presidenziali, si terranno nei tempi prestabiliti, nel 2023 le prime, nel 2024 le seconde.
Un messaggio che vorrebbe essere rassicurante: nulla cambia, l’ ”operazione militare speciale” non diventa guerra, e ai russi stanchi e impauriti non viene imposta nessuna ulteriore stretta. Dall’altro, il segnale è fin troppo evidente: è Putin che decide e garantisce il rispetto del calendario politico, e a questo punto è chiaro che se elezioni si terranno come previsto è perché il candidato e il vincitore è già stato deciso. La transizione del potere verso un delfino temuto quanto atteso dalla nomenclatura putiniana non è all’orizzonte: la guerra ha consolidato definitivamente un modello di potere da monarchia quasi assoluta.
Il modo in cui Putin ha aggiunto al suo discorso all’ultimo momento, e a quanto pare con le sue mani, il passaggio sul New Start lo dimostra. Il ministero degli Esteri, un organismo che negli ultimi anni si è trasformato da un ente diplomatico in antenna di propaganda, ha dovuto correre ai ripari, sostenendo che la sospensione era “reversibile” e che la Russia avrebbe continuato a rispettare comunque il tetto imposto dal trattato ai suoi arsenali, alimentando il sospetto che Putin avesse minacciato di far saltare l’accordo soltanto per vendicarsi della visita di Joe Biden a Kyiv.
Un regime verso la disintegrazione?
Il risultato è stato un discorso prolisso e contraddittorio, che ha alternato minacce e proclami, e che ha convinto sia i falchi che i meno falchi di una verità che molti sospettavano, ma non osavano ammettere: Putin non ha un piano, meno che mai un piano B, e sta cercando di navigare a vista tra l’impossibilità fisica di vincere sull’Ucraina e l’inammissibilità di una marcia indietro che vede come la fine del suo regno. Cosa che paradossalmente potrebbe non essere vera: i russi, la nomenclatura come il popolo, sono talmente spaventati e spiazzati da una guerra che sta andando verso il disastro, da essere probabilmente pronti ad acclamare chiunque li riporti almeno al 23 febbraio dell’anno scorso.
Semmai è la guerra che sta accelerando la disintegrazione del regime, e lo scontro ormai esplicito tra Evgeny Prigozhin, il capo dell’esercito dei mercenari Wagner, e il ministero della Difesa, lo sta dimostrando chiaramente. Una ritirata potrebbe rinviare la resa dei conti, liberando le risorse repressive che Putin potrebbe usare contro i suoi critici, e quelle economiche che servirebbero a ricomprare il consenso della popolazione. Resta la speranza che è delle condizioni di una marcia che il presidente russo ha discusso con Wang Yi, il capo della diplomazia del partito comunista cinese e primo emissario altolocato di Pechino a visitare Mosca in un anno. In attesa di scoprire in cosa consiste il piano di pace cinese, viene il dubbio che Xi Jinping stia rispondendo in questo modo alle esortazioni di Washington di prendere posizioni contro Mosca. E che la “nuova Yalta” tante volte chiesta da Putin possa metterlo in imbarazzo, perché non avrebbe la Russia come protagonista.
Foto di copertina ANSA/Uff stampa Cremlino