Il processo verso la difesa europea e i suoi protagonisti per molti anni, almeno fino al 2016, potevano essere raffigurati come un gruppo di viandanti che attraversavano il deserto. Alcuni erano più robusti e avevano qualche riserva d’acqua, altri marciavano quasi solo con la forza della volontà. Tutti erano circondati da un deserto di scarsa attenzione politica e mediatica, legato soprattutto alla convinzione diffusa che non avremmo più visto una guerra vera e propria sul territorio europeo e che ormai la guerra “ibrida” aveva sostituito quella “tradizionale”.
Nonostante l’invasione russa della Crimea nel 2014, molti si erano dimenticati che nel primo aggettivo è compreso in qualche modo anche il secondo, e che considerando la secolare storia dell’Europa moderna non si poteva e doveva dare nulla per scontato.
Lo stallo della difesa comune
Lo scorso 24 febbraio la realtà ha dimostrato purtroppo di essere più forte dei sogni su cui per tanti anni molti si erano adagiati. Sembra che subito l’Unione Europea e i suoi membri si siano risvegliati e abbiano compreso che non c’è sviluppo senza sicurezza, e che solo impegnandosi seriamente si può garantire il sistema di vita e di valori europeo.
Così, poco dopo, si è trovata anche l’acqua, con la decisione di aumentare gli stanziamenti, collettivi e nazionali, per la difesa: per ora sembrano più oasi che fonti inesauribili, scollegate tra loro e con portata alquanto variegata, ma sicuramente quasi tutti hanno potuto ricominciare a dissetarsi. Peccato che, come sa chi conosce il deserto, è molto rischioso farlo senza cautela e gradualità: il rischio di indigestione è dietro l’angolo. Ed è quanto potrebbe succedere alla difesa europea.
Fuor di metafora, sul piano collettivo si sarebbe potuto e dovuto dare un forte segnale raddoppiando i finanziamenti in ricerca e sviluppo militari, riportando così l’European Defence Fund (EDF) a quanto inizialmente proposto dalla Commissione pre-Covid, e si sarebbe potuto rafforzare quelli per la Military Mobility, favorendo il supporto reciproco fra gli Stati Membri. Ma la preoccupazione per la necessità di ripianare le scorte di equipaggiamenti dati all’Ucraina e aumentarle di fronte alle nuove minacce russe, ha spinto l’Unione e gli Stati Membri a cercare di favorire nuove rapide acquisizioni di prodotti militari.
I rischi di ulteriori ritardi nella difesa europea
Una scelta comprensibile, ma poco lungimirante. Si corrono, infatti, alcuni rischi che potrebbero incidere sulle future effettive capacità europee:
1 Soddisfare, senza una prospettiva strategica comune, le esigenze attuali significa dover fare ricorso a fornitori diversi, in gran parte non europei. Il risultato sarà quello di avere ancora per decenni armamenti diversi, rendendo impossibile un comune supporto logistico, addestramento e aggiornamento tecnologico, oltre che più difficile un comune impiego operativo. Significa anche indebolire la sovranità tecnologica europea, penalizzando i fornitori interni all’Ue e favorendo i concorrenti a livello mondiale, dal cui supporto si continuerà a dipendere per decenni, visto che la vita media di una piattaforma militare è stimata in trenta anni.
2 Saturare eccessivamente la domanda con prodotti moderni, ma non di nuova generazione (come quelli oggi disponibili) significa condannare l’Unione a convivere per altri decenni con il gap tecnologico nei confronti degli Stati Uniti, che stanno, invece, avviando in molti settori un nuovo salto generazionale. Questo ritardo potrebbe riflettersi, per altro, anche sul mercato internazionale limitando poi le possibilità europee di esportazione.
3 Anticipare sul breve-medio periodo l’acquisizione di importanti sistemi di difesa significa mettere a rischio la produzione di quanto sarà reso possibile dai progetti europei di sviluppo finanziati dai fondi comuni, in particolare Edf. L’innovazione tecnologica non può rinunciare alla maturazione legata all’industrializzazione e alla messa in servizio dei nuovi equipaggiamenti. Ma questo non potrà avvenire prima della fine di questo decennio.
Il nuovo programma europeo di incentivi per la difesa comune
Per cercare di favorire un approccio comune alle esigenze di breve periodo, l’Unione Europea sta mettendo a punto un nuovo programma di incentivi, denominato EDIRPA, dotato di 500 milioni. Ma è solo una goccia nel mare dei nuovi programmi di acquisizione che solo nell’attuale biennio potrebbero essere cento volte di più. Può, comunque, essere utile per dare un segnale della volontà europea di proseguire sulla strada della cooperazione anche nel campo delle acquisizioni. Ma richiede un cambio di passo perché i veri attori restano gli Stati Membri e senza la loro volontà politica faremo poca strada.
Su questa decisione anche le Forze Armate e l’industria devono fare la loro parte aiutando i governi a comprendere che l’esigenza di avere equipaggiamenti comuni resta un obiettivo imprescindibile se si vogliono davvero garantire maggiori capacità di difesa e sicurezza del nostro continente. Efficienza operativa, supporto logistico, addestramento, aggiornamento tecnologico impongono requisiti comuni e, quindi, sistemi d’arma comuni. L’aumento degli investimenti da parte degli Stati Membri può avvicinarci a questo obiettivo, ma può anche allontanarcene, in modo forse irreparabile.
L’esempio del programma Eurofighter
Un’esperienza “virtuosa”, da questo punto di vista, è venuta in passato dall’Italia. Il nostro Paese ha fin dall’inizio aderito con entusiasmo all’avvio del programma Eurofighter nel 1985. Ci sarebbero voluti poi venti anni prima che l’Aeronautica possa ricevesse il primo velivolo.
Nel frattempo le capacità addestrative e operative sono state soddisfatte prima modificando un gruppo di velivoli F 104 nella versione Asa (Aggiornamento Sistemi d’Arma), poi acquisendo in leasing per un decennio a partire da metà anni Novanta un gruppo di velivoli Tornado ADV (Air Defence Variant, la versione da superiorità aerea sviluppata per la RAF), e, infine, sostituendoli, sempre in leasing, con un gruppo di F 16, rimasti in servizio fino al 2012.
La scelta lungimirante dell’Italia e dell’Aeronautica è stata, quindi, di mantenere l’impegno e il sostegno nel programma che ha permesso di realizzare uno dei migliori sistemi europei, oggi in servizio in Germania, Regno Unito, Spagna e altri Paesi Ue e non, soddisfacendo parzialmente e con un sensibile sacrificio finanziario le esigenze immediate. Un esempio che oggi potrebbe essere seguito, con i necessari adattamenti, anche da altri partner europei nella logica di non tarpare le ali ai futuri sistemi comuni.
Accordi di cooperazione
Un’altra strada da esplorare potrebbe essere rappresentata da un maggiore sforzo nel sostenere gli Stati Membri attraverso specifici accordi di cooperazione che consentano di svolgere determinati compiti impiegando, con un finanziamento europeo, le capacità di altri Stati Membri. Si potrebbe, quindi, estendere, e stabilizzare fino a quando necessario, il rischieramento di determinate capacità militari nei Paesi che ne hanno bisogno, come già avviene parzialmente nel quadro della Nato. Il meccanismo dovrebbe essere rivisitato in chiave europea, anche finanziariamente, e finalizzato a non compromettere le prospettive di partecipazione ai futuri programmi europei da parte degli Stati membri interessati.
In altre parole, si tratta sostanzialmente di assicurare una presenza stabile nell’est europeo di assetti militari dell’Europa occidentale, per rassicurare quegli Stati per il tempo necessario alla produzione della nuova generazione di assetti comuni, rallentando così la corsa a comprare “chiavi in mano” dai fornitori americani, israeliani o coreani. Una strada sicuramente complicata, ma che potrebbe contribuire a rispondere alle preoccupazioni di oggi senza sacrificare quelle di domani.
Foto di copertina EPA/CHRISTOPHE PETIT TESSON