Mentre scriviamo non sappiamo come evolverà la situazione in Ucraina. Al momento si è ancora in una fase di stallo, ma sempre ad una soglia dalla crisi irreparabile. Anche se Washington ha deciso di non renderla pubblica, le agenzie riferiscono che gli Stati Uniti hanno fornito la “risposta scritta” che, pur confermando l’invito a proseguire il dialogo, sostanzialmente respinge gli accordi sulle “garanzie di sicurezza” proposte da Mosca. Era peraltro prevedibile visto che la Russia chiedeva un impegno a rinunciare ad ogni allargamento della Nato e il ritiro delle forze dell’Alleanza Atlantica dai Paesi entrati dopo il 1997.
Le richieste di Mosca ritenute irricevibili
Sul punto è opportuno rileggere almeno alcuni passaggi degli accordi proposti dalla diplomazia russa, per rendersi conto della loro irricevibilità. La Russia ha presentato agli Stati Uniti due documenti, un progetto di trattato su “garanzie di sicurezza” di carattere generale e un progetto di accordo su meccanismi bilaterali di risoluzione delle controversie. Nel trattato, agli artt.1 e 2 si prevede che ciascuna parte «non intraprenda azioni che incidono sulla sicurezza dell’altra parte» e che «si adoperi per garantire che tutte le organizzazioni internazionali e alleanze militari a cui partecipa aderiscano ai principi della Carta delle Nazioni Unite». Centrali sono poi gli art. 3 e 4: si pone l’obbligo di «non utilizzare i territori di altri Stati allo scopo di preparare o effettuare un attacco armato contro l’altra parte», e si specifica che «gli Stati Uniti non stabiliranno basi militari nel territorio degli Stati dell’ex Urss che non sono membri della Nato», ed «eviteranno l’adesione di Stati dell’ex Urss alla Nato, impedendo una sua ulteriore espansione ad Est».
E non è finita. All’art. 5 si stabilisce che «le parti si astengono dal dispiegare le loro forze armate e i loro armamenti, anche nell’ambito di alleanze militari, nelle aree in cui tale dispiegamento può essere percepito dall’altra parte come una minaccia alla propria sicurezza nazionale» e che «si astengono dal far volare bombardieri equipaggiati con armamenti nucleari o non nucleari e dallo schierare navi da guerra nelle aree, al di fuori dello spazio aereo e delle acque territoriali nazionali, da cui possano attaccare obiettivi nel territorio dell’altra parte». In base all’art. 6 le parti assumono l’impegno di «non usare missili terrestri a gittata intermedia o corta al di fuori dei loro territori nazionali, nonché nelle zone dei loro territori da cui tali armi possano attaccare obiettivi sul territorio dell’altra parte».
Infine, all’art.7 si prescrive che «le due parti si asterranno dallo schierare armi nucleari al di fuori dei loro territori nazionali e riporteranno nei loro territori le armi già schierate al di fuori» e che «non addestreranno personale militare e civile di paesi non nucleari all’uso di armi nucleari, né condurranno esercitazioni che prevedano l’uso di armi nucleari». Nel progetto di accordo si stabiliscono intese finanziarie e in particolare «meccanismi delle consultazioni e informazioni bilaterali, comprese linee telefoniche dirette per contatti di emergenza».
Lo spettro di Cuba 1962
Biden aveva dato disponibilità ad una intesa diplomatica, ma non solo bilaterale, parlando piuttosto di «canali multipli». In gioco ci sono la posizione della Nato, di cui si pone in discussione la presenza nell’Europa orientale e in Asia centrale, e ovviamente gli interessi dei Paesi dell’Unione Europea che aderisco alla Alleanza atlantica. La risposta, dunque, come si è detto, non poteva che essere irricevibile e pertanto la situazione è molto critica per i possibili sviluppi di una escalation imminente della tensione.
È ormai piuttosto condivisa l’opinione degli analisti che la questione della crisi sull’Ucraina non possa più considerarsi una delle tante scaramucce diplomatiche strumentalmente alimentate per mantenere il gioco di equilibrio delle grandi potenze. Il grado di mobilitazione raggiunto dalle forze armate russe ai confini dell’Ucraina, non solo ma anche nel Mar Nero e nel Mediterraneo, e i corrispondenti apprestamenti che Stati Uniti e Nato stanno mettendo appunto dimostrano che l’escalation è a un passo dall’acting out.
Qualche osservatore ha valutato che la soglia dello scontro USA- Federazione Russa sembra aver raggiunto l’intensità della crisi di Cuba, quando nel 1962, il premier sovietico Nikita Chruščёv decise di installarvi un potente schieramento di missili nucleari strategici. E si tratta di un riferimento storico peraltro affatto forzato o inattuale, se si considera che, proprio in risposta allo stallo sulle “garanzie di sicurezza” (nessun altro allargamento della Nato e ritiro delle forze dell’Alleanza Atlantica dai Paesi entrati dopo il 1997) richieste agli Usa e alla Nato da Mosca, il 17 gennaio il portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov, ha dichiarato di non escludere un possibile dispiegamento di infrastrutture militari russe in America Latina per garantire “maggiore sicurezza” al Paese. Una dichiarazione che, non casualmente, ha fatto seguito ai comunicati ufficiali che riferivano di “colloqui franchi e collaborativi” del Presidente Putin con i suoi omologhi di Cuba e Venezuela.
Le conseguenze di una guerra in Ucraina
In questo scenario, sui principali media è ora tutto un susseguirsi di resoconti sulle pianificazioni militari in corso e sulla comparazione degli schieramenti, ma anche sui profili di rischio di entrambe le parti, specie per le conseguenze che un conflitto di tale portata recherebbe in un contesto generale di grave crisi economica e sociale. E certamente l’aspetto più considerevole riguarda il sistema degli scambi finanziari e commerciali, riferiti questi ultimi ai settori alimentari, alle tecnologie e alle materie prime, ma soprattutto all’approvvigionamento energetico.
Come è noto, il nuovo cancelliere tedesco Olaf Scholz ha già indicato che potrebbe essere posto in discussione il progetto del gasdotto Nord Stream 2, che dovrebbe raddoppiare l’afflusso di gas russo all’Europa. In ogni caso gli interessi sul flusso energetico sono di entrambi i contendenti: se gli europei in particolare hanno bisogno degli approvvigionamenti, dall’altro la Russia ha necessità di mantenere il livello del suo export.
Se le prospettive dunque non sono rassicuranti, c’è una ragione in più perché la “comunità internazionale” – ma anche quella dei giuristi – ricerchi con maggiore convinzione il ruolo della diplomazia che in questo caso deve porsi necessariamente l’obiettivo di evitare il conflitto. E qui a dire il vero non sono mancate le iniziative e gli incontri ad alto livello, ma sembrano piuttosto orientati fino ad ora a sostenere la linea della deterrenza, prospettando per lo più il ricorso al sistema delle sanzioni internazionali e/o degli aiuti economici e militari all’Ucraina.
Cosa avevano stabilito gli accordi di Minsk
Ma una valutazione più attenta può cogliere invece l’importanza di un possibile punto di svolta, che altro non è che un punto di partenza da cui riprendere la matassa su cui ha iniziato ad intrecciarsi il filo della crisi. Tra le varie congetture sulle linee d’azione per concertare una possibile intesa, infatti, quella che appare la più concreta e realizzabile sembra quella di riportare al centro della questione gli Accordi di Minsk: si tratta del Protocollo di Minsk del 2014, e in particolare del Minsk II, sottoscritto l’11 febbraio 2015 tra i capi di Stato di Ucraina, Russia, Francia e Germania – e sotto l’egida dell’ Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (OSCE) – al termine di un sofferto processo negoziale che portò ad un pacchetto di misure di contenimento della escalation della guerra del Donbass.
A parte il cessate il fuoco, la liberazione e lo scambio dei prigionieri, gli accordi stabilivano l’impegno a dare un assetto costituzionale all’Ucraina e a riconoscere margini di autonomia alle regioni di etnia russa. Importanti erano anche le previsioni di “misure di fiducia” che concernevano, ad esempio, il “ritiro di tutti gli armamenti pesanti allo scopo di creare una zona di sicurezza tra entrambe le parti, di 50 km per artiglierie (di calibro superiore a 100 mm), di 70 km per sistema lanciarazzi multipli e di 140 km per versioni di questi ultimi a lunga gittata (9A53 Tornado, BM-27 Uragan e BM-30 Smerch) e per sistemi missilistici tattici OTR-21 Točka”. In tale processo venivano previste le procedure proprie dell’Osce di osservazione e verifica sul cessate il fuoco e sul ritiro degli armamenti pesanti.
Il rilancio del “Formato Normandia” per avviare un nuovo dialogo
Gli accordi sono anche ricordati per essere una iniziativa del “Formato Normandia”, perché il 6 giugno 2014 i leader di Francia, Germania, Russia e Ucraina si incontrarono a margine del 70° anniversario dello sbarco alleato del D-Day in Normandia e qui decisero di impegnarsi per dare una svolta alla guerra del Donbass. Anche su questo riferimento non ci si può sottrarre ad una riflessione che può essere una premessa suggestiva per riprendere il dialogo internazionale: il richiamo ad una fase cruciale della II guerra mondiale evoca il valore incommensurabile che rappresentò per il futuro delle generazioni l’intesa allora raggiunta tra gli Stati Uniti e l’allora Unione Sovietica, insieme a Francia e Gran Bretagna.
Oggi è proprio la Francia di Macron a rilanciare il «Formato Normandia» per ridare vita al dialogo tra Russia, Ucraina, Francia e Germania, ripartendo dagli Accordi di Minsk. Ma, ad onore del vero, chi ha seguito con attenzione i momenti delle dichiarazioni a margine dei numerosi vertici internazionali che si sono susseguiti ricorda anche una precisa indicazione venuta dall’Italia, per voce del Presidente del Consiglio Mario Draghi e riportata dalle agenzie il 22 dicembre scorso: “Le relazioni tra Ucraina e Russia sono disciplinate dagli Accordi di Minsk che non sono stati osservati da nessuna delle due parti. Quindi un’osservanza di questi accordi potrebbe essere il primo passo”. L’Italia, che qualcuno in questi giorni ha accusato di non aver molto chiarito la propria posizione sulla crisi dell’Ucraina perché presa dalle elezioni presidenziali, aveva già indicato una strada da intraprendere concretamente. Che è anche un monito. C’è solo da sperare che si ritorni effettivamente a ridiscutere sugli Accordi di Minsk.
Foto di copertina EPA/STANISLAV KOZLIUK