Lo scontro istituzionale tra governo e Alta Corte israeliana, al momento si assesta al pareggio. Da un lato l’esecutivo di Benjamin Netanyahu cerca di portare avanti la riforma della giustizia che di fatto limiterebbe i poteri dell’organo giudiziario; dall’altro il governo israeliano ha dovuto soccombere alla richiesta della Corte di squalificare un suo membro.
L’affaire Aryeh Deri
Domenica, dopo un braccio di ferro di alcuni giorni, Benjamin Netanyahu ha deciso di licenziare il ministro degli interni e della salute, nonché vice primo ministro, Aryeh Deri che da martedì non siederà più nel governo. Questi, capo del partito Shash degli ultra ortodossi, quattro giorni prima era stato protagonista della sentenza dell’Alta Corte secondo cui la decisione di nominarlo ministro degli interni e della salute era “estremamente irragionevole” alla luce delle sue condanne penali, l’ultima nel gennaio 2022.
Deri aveva stipulato un patteggiamento con una corte di Gerusalemme, atto che gli ha permesso di lasciare la Knesset prima della sua condanna e quindi evitare un’udienza per stabilire se la sua condanna per frode fiscale comportasse turpitudine morale, una designazione che gli avrebbe impedito di ricoprire cariche pubbliche per sette anni. La corte all’epoca accettò il patteggiamento perché era convinta della volontà di Deri di ritirarsi dalla vita pubblica nel breve tempo.
Il politico, però, ha continuato a guidare Shas, portandolo ad essere uno degli alleati importanti ed essenziali nella vittoria della destra e di Netanyahu alle consultazioni elettorali del primo novembre scorso. Da qui la scelta del premier di portarlo al tavolo del gabinetto, nonostante quanto preveda la Legge fondamentale: il governo richiede al Comitato elettorale centrale di determinare se il suo crimine comportasse turpitudine morale prima che potesse essere nominato ministro.
La coalizione si è affrettata a trovare una soluzione per consentire a Deri di prestare giuramento con il resto del gabinetto il 29 dicembre, ma è servito a poco. Il ministro di due dei dicasteri con più finanziamenti nella società israeliana, domenica ha detto di non aver mai fatto intendere di voler lasciare la politica. Secondo Deri sarebbe stata solo un’ interpretazione fallace del giudice e che anzi il vecchio procuratore generale Mandelbilt, lo stesso delle accuse a Netanyahu, era al corrente della sua volontà di continuare.
Ma la cosa non ha impedito all’alta corte (sulla base del principio del common law “estoppel” a nessuno è permesso prendere vantaggio da dichiarazioni contraddittorie rispetto ad altre in passato) di chiedere la squalifica del ministro. Un braccio di ferro di alcuni giorni, durante i quali non sono mancate accuse reciproche, manifestazioni di piazza, che hanno portato alla decisione di Netanyahu. Decisione che, ai più, pareva comunque scontata, pur se nella dialettica politica del caso, il primo ministro israeliano non ha esitato a criticare la decisione della Corte e a parlare di ingerenze.
Una nuova fase politica
Deri esce dalla porta ma entrerà dalla finestra: essendo vice primo ministro (cosa che gli ha permesso di guidare anche alcune riunioni del gabinetto israeliano), ed essendo questa una carica onorifica, da ciò non può essere squalificato e potrebbe essere invitato comunque alle riunioni dell’esecutivo come osservatore.
La sostituzione di Deri apre un’altra fase politica perché Netanyahu, proprio per le accuse che sono state mosse nei suoi confronti e per le quali è imputato sotto quattro capi diversi, non può prendersi il controllo dei ministeri o un interim e dovrà provvedere al più presto a nominare un sostituito in due dicasteri fondamentali, pescando probabilmente nel bacino degli stessi ultraortodossi. Il partito di Deri, lo Shas, alle scorse elezioni del 1 novembre era risultato il quinto più votato, piazzando undici parlamentari alla Knesset, contando l’8% del parlamento, in aumento rispetto al passato.
Netanyahu contro l’Alta corte israeliana
Ma lo scontro su Deri, si inserisce in quello più ampio tra l’esecutivo e l’Alta Corte per la nuova proposta di legge che limita i poteri di quest’ultima. La riforma è stata proposta dal ministro della giustizia e vicepremier Yariv levin, uno degli uomini di punta del Likud di Benjamin Netanyahu, politico di lungo corso che ha servito in altri gabinetti come ministro e in legislature come parlamentare, oltre ad essere stato portavoce della Knesset, il parlamento unicamerale israeliano.
Se approvata, la riforma della giustizia aumenterà i poteri per la Knesset, permettendogli di annullare le sentenze della Corte Suprema con una maggioranza semplice. Il timore di molti è che il governo in tal caso potrebbe utilizzare tale strumento a suo favore: Netanyahu per bloccare eventuali ulteriori processi contro di lui, mentre il governo in generale, si dice, potrebbe avere maggiore facilità ad approvare leggi a favore ad esempio degli insediamenti, o per favorire ulteriormente le mire espansionistiche israeliane in Cisgiordania.
Con il sistema al momento vigente i giudici della Corte suprema possono bocciare le leggi approvate dal Parlamento, se contraddicono le 13 Leggi fondamentali di Israele, la legge costituzionale dello Stato ebraico. Con la riforma verrebbe invece introdotta una ‘clausola di annullamento‘ che permetterebbe ai deputati di reintrodurre una norma bocciata dalla Corte suprema con una maggioranza semplice di 61 voti (su 120). Altro timore è che, con la riforma, potrebbe verificare un indebolimento della magistratura rispetto all’esecutivo. Al momento in Israele, i giudici della Corte Suprema sono nominati e revocati da un comitato composto da professionisti, membri del governo e alcuni giudici. La riforma di Levin vorrebbe invece dare al governo la maggioranza nel comitato, con i numeri che propendono per il governo in carica. I giudici della Corte Suprema verrebbero dunque per lo più scelti dal governo.
Contro questa proposta, si sono riviste, nelle ultime settimane, le manifestazioni del sabato contro Netanyahu sia a Gerusalemme che a Tel Aviv, con decine di migliaia in piazza a protestare contro il governo. Che, però, è forte degli oltre due milioni di consensi delle scorse elezioni, ha la forza di poter andare avanti senza curarsi della parte minoritaria del paese che lo contesta.
Foto di copertina EPA/RONEN ZVULUN / POOL