La campagna di Cornel West alla presidenza degli Stati Uniti è sempre più caotica. Qualche mese fa avrebbe dovuto candidarsi con il People’s Party, poi successivamente avrebbe optato per i Verdi, che invece vedranno di nuovo sulle schede elettorali il nome di Jill Stein, personalità che evoca una ferita aperta per i democratici che ricordano il suo ruolo per le elezioni del 2016. Ora invece West cercherà di raccogliere le firme da indipendente, non affiliato a nessun partito. D’altronde l’accademico si definisce un jazzista, la cui qualità più importante è l’improvvisazione e l’adattamento a ogni contesto.
West è un docente universitario che da anni ha abbandonato la carriera attiva di alto livello; negli anni ’80 ha contribuito alla crescita dello studio dell’afroamericanistica, settore a quell’epoca ancora piccolo rispetto a oggi. Da sempre non è stato un grande scrittore, essendo molto più versatile nell’eloquio; infatti propugna le sue tesi con grande vitalità e coinvolgimento, generando interesse verso le sue posizioni.
Chi è Cornel West
Il suo nome diventa famoso nel 1993, a un anno di distanza dalle proteste afroamericane di Los Angeles dovute all’uccisione di Rodney King; è in quel momento, infatti, che pubblica un pamphlet di 150 pagine, “Race Matters”, che si poneva l’obiettivo di spiegare il rapporto della società americana con la razza. In quel periodo i concetti di ineguaglianza e razzismo avevano perso slancio, dato che la società aveva pensato di essersi corretta con il passaggio del Civil Rights Act, e i neri sproporzionatamente poveri che vivevano nei ghetti venivano nuovamente colpevolizzati per non riuscire a scappare dalla loro posizione di inferiorità.
Il libro è un nuovo appello al concetto di “razzismo sistemico”, presente nell’intellettualismo nero fin dai tempi di Du Bois, ma difficile da porre in agenda durante un esecutivo democratico che faceva della lotta violenta al crimine, incarcerando sproporzionatamente la popolazione afroamericana, una delle basi del suo successo. Il pamphlet fece sì che West finisse su Newsweek e TIME, e perfino alla stessa Casa Bianca dei Clinton, quel governo le cui politiche avevano reso indispensabile l’uscita di un lavoro come “Race Matters”.
Nonostante ciò quella fu l’ultima pubblicazione in singolo dell’accademico afroamericano, successivamente sarà solo co-autore con altri; questa sua indigenza nella produzione scientifica gli costò l’allontanamento da Harvard nel 2002 e pian piano un’irrilevanza sempre più ampia. Negli ultimi anni, come evidenziato da un profilo uscito per New York Magazine, si parla di lui sempre più come di un narcisista impazzito, che non produce da trent’anni nulla di rilevante; così viene letto un op-ed che lo stesso West ha scritto per il “Wall Street Journal” in cui applaudiva Ron DeSantis per salvaguardare i classici dalla temperie culturale che vuole distruggerli. In realtà, come sappiamo, è lo stesso governo della Florida di DeSantis che fa sì che sempre più libri vengano eliminati dalle biblioteche scolastiche.
Nel periodo del governo Obama, che aveva sostenuto seppur con molti distinguo, è stato probabilmente uno dei suoi critici peggiori, con frasi molto forti e spesso fuori luogo; del quarantaquattresimo presidente degli USA ha detto senza mezzi termini che fosse “un Rockefeller repubblicano con la blackface”. Non si riconosce nelle politiche del partito democratico, soprattutto perché lo definisce un partito militarista; West vorrebbe distruggere il bilancio federale per la Difesa, è contrario al supporto armato all’Ucraina, propagandando addirittura le tesi russe per cui la colpa del conflitto sarebbe dovuta a un allargamento indebito della NATO, ha dichiarato nel programma di Sean Hannity su FOX News che i palestinesi si ribellano coscienziosamente a Israele, partecipando in prima linea alla protesta pro-pal di UCLA, in California.
Le idee e l’improvvisazione
Date queste evidenze, è chiaro che West non ha quasi nulla del sostenitore del partito democratico, ma molti, compresi alcuni cittadini che vanno ad ascoltare rapiti i suoi comizi, gli chiedono se sia opportuna una sua candidatura proprio in questa elezione, l’ennesimo showdown tra il potere democratico e Donald Trump. A queste teorie West risponde che il candidato “che ruba i voti” non esiste, è un’invenzione dei due partiti maggiori per giustificare quella che a tutti gli effetti è una consuetudine, cioè il Two-Party System. La realtà è che ogni candidato deve guadagnarsi ogni voto, e se gli esponenti dei partiti maggiori hanno paura vuol dire che si sta raggiungendo pienamente lo scopo, quello di demolire il duopolio e far sì che le presidenziali diventino in futuro più aperte.
Sembra però l’improvvisazione a guidarlo, e questo lo notiamo con l’abbandono dei Verdi pochi mesi dopo aver detto che si sarebbe candidato con loro; quella sarebbe potuta essere una candidatura interessante, la fusione di una piattaforma prevalentemente bianca con il profeta nero, cantore della giustizia sociale.
Il sodalizio con Jill Stein è però scoppiato molto presto e ora West dovrà raccogliere molte più firme per candidarsi in tutti e 50 gli Stati, in quanto indipendente non affiliato a nessun partito; lui dice che il suo obiettivo è essere presente in 35 di questi, dimostrando ancora una volta che non ha un’idea precisa di quello che sta facendo. Cornel West improvvisa, cerca di adattarsi a ogni contesto, ma la sua sfida contro il potere non mette in difficoltà Biden, così come non sembra dargli così grattacapi la nuova candidatura per i Verdi di Stein; il problema del Presidente è il gruppo No Label, che è sempre più vicino a sfidare Biden e Trump con un esponente centrista, forse addirittura il senatore democratico della West Virginia, Joe Manchin.
Questo articolo è a cura di Marco Arvati, della redazione di Jefferson – Lettere sull’America
foto di copertina EPA/TANNEN MAURY