Negli scorsi giorni l’esecutivo guidato da Giorgia Meloni ha stabilito che il contingente dell’Esercito Italiano impiegato nell’operazione Strade Sicure tornerà a sorvegliare le città di Pisa, Ferrara e Monza. La scelta del governo si colloca in piena continuità con quanto fatto da quasi tutti gli esecutivi italiani a partire dal 2008, anno in cui venne schierato per la prima volta il contingente sul territorio nazionale. Sin da quell’anno, Strade Sicure è stata costantemente prorogata e presentata dai vertici politici e a volte anche militari come un successo. Tuttavia, un esame più dettagliato dell’operazione e dei suoi risultati rivela un quadro ben diverso da quello ottimistico rappresentato in questi anni.
Gli obiettivi iniziali dell’operazione
Per valutare i risultati occorre partire dagli obiettivi dell’operazione, quindi dalla sua genesi. Strade Sicure viene avviata nel luglio del 2008, due mesi dopo le elezioni politiche vinte dal centro-destra, in un momento caratterizzato da un diffuso senso di insicurezza, primariamente orientato verso la criminalità e l’immigrazione. Nonostante i dati sulla criminalità dimostrassero che questa paura era infondata – dal 2006 al 2008, il numero di delitti denunciati dalle forze di polizia all’autorità giudiziaria era diminuito del 2.2% – il tema dell’insicurezza era stato sfruttato dalla coalizione di centro-destra per criticare l’esecutivo precedente. Nel tenere fede alle promesse fatte in campagna elettorale, però, il governo Berlusconi doveva fare i conti con un bilancio pubblico limitato. Nel 2008 l’Italia cominciava infatti a subire i primi effetti della crisi finanziaria. L’esecutivo doveva inoltre tenere conto del “blocco del turnover”, la riforma appena entrata in vigore che imponeva forti limiti alle assunzioni nella pubblica amministrazione, inclusi polizia e carabinieri (-8.722 unità tra il 2008 e il 2012).
In questo contesto, l’impiego dell’Esercito appariva piuttosto conveniente. Esso consentiva di aumentare il senso di percezione della sicurezza senza aumentare gli organici della polizia. Che questo fosse il reale obiettivo dell’operazione è stato confermato da un rapporto della Corte dei Conti pubblicato nel 2013. La Corte concludeva la propria analisi validando l’efficacia dell’operazione, ma nel motivare la propria valutazione essa non faceva riferimento agli effetti sulla sicurezza – “non è possibile verificare e valutare il positivo impatto dei risultati operativi del personale impiegato” – ma solo agli effetti sui conti pubblici, dichiarando che l’operazione aveva consentito il recupero di 1.568 unità di polizia, e che “sotto il profilo dell’economicità […] si può osservare che il recupero di 1.568 unità delle forze di polizia ha fatto risparmiare circa 63 milioni di euro”.
Da questo quadro emerge con forza l’idea che l’obiettivo principale di Strade Sicure rispondeva fin dall’inizio a scopi essenzialmente politici, e che le Forze armate non venivano impiegate perché disponevano di competenze che in quel momento erano necessarie, ma perché consentivano un risparmio di denaro.
Gli effetti negativi sulle Forze armate
Nonostante l’operazione possa risultare conveniente, i vertici politici susseguitisi nel tempo hanno ignorato che le forze armate sono una professione strutturata e organizzata per assolvere attività specifiche e non un’organizzazione così multi-tasking da assolvere per 15 anni compiti di polizia interna così distanti dal loro compiti chiave. Per questo motivo, ogni attività che si distanzia dalle competenze specifiche delle Forze armate porta con sé dei rischi, specie se prolungata bene aldilà di pochi mesi di emergenza dovuta a calamità naturali o altri eventi circoscritti nel tempo. In particolare, quelli generati dalla partecipazione dell’Esercito a operazioni di polizia interna possono essere analizzati su due livelli diversi, organizzativo e individuale.
A livello organizzativo, l’impiego dei militari per compiti di polizia riduce il livello di addestramento delle unità. Da una parte esso non permette ai militari di mettere in pratica le loro competenze specifiche. Un carrista non apprende certamente a manovrare il suo carro armato sorvegliando il Colosseo, né un guastatore affina le sua capacità di maneggio esplosivi pattugliando il centro di Modena. Dall’altra, queste operazioni sottraggono tempo e risorse all’addestramento.
Nel 2019, l’allora Capo di Stato Maggiore dell’Esercito Salvatore Farina ha spiegato come il numero reale di soldati dedicati all’operazione sia molto maggiore di quello presentato, perché occorre tenere conto dei recuperi e della preparazione. In quell’anno, ad esempio, a fronte di un numero di unità schierate pari a 7.000 uomini “il numero complessivo delle forze orientate o dedicate all’operazione” era pari a “circa 22.000 unità”. Un numero elevatissimo, date le dimensioni della componente operativa dell’Esercito – circa 45.000 unità – che rendeva “difficoltoso il completo svolgimento dei cicli addestrativi”. Come affermato ancora nel 2019 in Parlamento dal Generale Ceravolo, Presidente del COCER (Consiglio Centrale di Rappresentanza) Esercito, durante audizione della Commissione Difesa, “tale impiego, così protratto nel tempo, purtroppo sta snaturando il ruolo militare delle unità impiegate nell’operazione, che hanno sempre meno tempo per addestrarsi per l’assolvimento dei compiti istituzionali”.
L’operazione ha un impatto anche a livello individuale. Si afferma spesso che i militari sono professionisti. Vero, e ciò significa che gli uomini e le donne in divisa non sono dei “tuttofare”, ma membri di un’organizzazione che possiede una competenza esclusiva il cui apprendimento richiede un lungo periodo di formazione. Per questo motivo, il loro impiego in compiti che si distanziano da ciò per cui essi si sono arruolati e preparati non può che essere percepito come uno svilimento delle proprie competenze professionali. Nel 2019, l’indagine parlamentare condotta dalla Commissione Difesa ha infatti rivelato che l’operazione suscita parecchio malumore tra i ranghi. Come affermato ancora da Ceravolo, “l’attuale impiego dei militari nell’operazione Strade Sicure…svilisce la professionalità del militare, relegando spesso i soldati al ruolo di vigilantes”.
Nonostante Strade Sicure riduca il livello di addestramento delle unità e svilisca la professionalità dei militari, essa ha continuato ad essere prorogata anche in una fase storica caratterizzata dal ritorno della guerra inter-statale in Europa. Il rischio è che nel medio/lungo termine la capacità dell’Esercito di assolvere al primo dei suoi compiti istituzionali, la difesa dello stato, venga compromessa. Allora ci si accorgerà dei problemi creati da Strade Sicure, ma sarà tardi.
Foto di copertina ANSA/ESERCITO ITALIANO