22 Dicembre 2024

Colin Powell: il “guerriero riluttante” che perse una battaglia sbagliata

Da ufficiale di prima nomina nella guerra del Vietnam a segretario di Stato degli Usa: quasi 40 anni di rispettata carriera militare e politica, bruciati in una sola mattina. È la sintesi della parabola umana e pubblica di Colin Powell, scomparso lunedì all’età di 84 anni.

Se aveste chiesto, negli Anni Novanta, e ancora fino al 2003, a un qualsiasi afro-americano, chi sarà il primo presidente nero degli Stati Uniti, vi avrebbe probabilmente risposto Colin Powell. Il suo era stato un percorso senza passi falsi: il primo nero capo di Stato Maggiore delle forze armate Usa all’epoca della Guerra del Golfo e dell’operazione da lui coordinata ‘Desert Storm’ – presidente era George Bush sr – dopo essere stato il primo consigliere per la sicurezza nazionale nero – presidente era Ronald Reagan, di cui fu al fianco nei negoziati con Mikhail Gorbaciov; nel 2001, era divenuto il primo segretario di Stato nero – con presidente Bush jr.

Repubblicano moderato, Powell, che godeva della stima e del rispetto di molti democratici, è morto di Covid, divenendo, così, il cittadino statunitense più illustre vittima del contagio. Pienamente vaccinato, ma affetto da un tumore e con difese immunitarie molto basse, prima di spirare ha tenuto a ringraziare per le cure il personale del Walter Reed National Medical Center. Il Walter Reed è l’ospedale militare di Bethesda dove vengono spesso curati i presidenti Usa: Donald Trump vi fu ricoverato quando prese il virus e ne uscì guarito – anzi, non aspettò neppure d’essere guarito per tornare a fare campagna.

La storia delle armi di distruzione irachene

Powell era da tempo in pensione ed era fuori da giochi da quando apparve chiaro che si era lasciato coinvolgere – non è mai emerso in che misura consapevolmente – nei giochi di George W. Bush e dei suoi “neo-con”, dopo l’11 settembre 2001, l’attacco all’Afghanistan, l’ondata di patriottismo che obnubilò gli Stati Uniti. Il segretario di Stato rispettato ovunque divenne il volto della campagna per convincere il mondo che l’Iraq aveva armi di distruzione di massa, che invece non c’erano, e per giustificare l’invasione del Paese e il rovesciamento del regime di Saddam Hussein, due obiettivi che, in realtà, erano sull’agenda dei sostenitori di Bush a prescindere dall’attacco di al Qaida all’America, con cui l’Iraq non aveva nulla a che fare.

La mattina del 5 febbraio 2003, Powell presentò all’Onu le prove – false – della minaccia irachena: dirà poi d’avere creduto, in buona fede, ai rapporti dell’intelligence, cui avrebbe però chiesto qualcosa di più convincente di una fialetta contenente polvere bianca e di foto di camion militari. La misura del fallimento della missione fu immediata e fragorosa: le sue parole furono ascoltate, ma non furono credute, e caddero nel gelo di una riunione allargata del Consiglio di sicurezza. Invece, il veemente discorso anti-invasione del ministro degli Esteri francese Dominique de Villepin suscitò un applauso travolgente.

Addio all’amministrazione (e ai ranghi repubblicani)

Da quel giorno, la credibilità di Powell non si risollevò più: lasciò l’Amministrazione ancora prima della fine del primo mandato di Bush jr, logorato dalla crescente consapevolezza dell’errore fatto e pure dal difficile rapporto con due falchi come Dick Cheney e Donald Rumsfeld – venne sostituito al Dipartimento di Stato da Condoleezza Rice, prima donna nera in quel ruolo; nel 2008, sostenne alle presidenziali Barack Obama, che in fondo realizzò il sogno da lui reso possibile; e, nel 2016, contrastò l’ascesa di Trump. Ma non recuperò più, nonostante l’impegno sociale sempre mantenuto, il rispetto e la stima di cui prima godeva nell’opinione pubblica degli Stati Uniti.

L’ultima sua sortita politica risale all’inizio dell’anno, quando dopo l’assalto al Congresso condotto da facinorosi sostenitori del presidente Trump il 6 gennaio, disse di non riconoscersi più nel partito che fu di Abraham Lincoln, ripudiandone definitivamente i vertici considerati ostaggio del magnate contro cui aveva votato nel 2016 e nel 2020. Ma la sua insofferenza verso i repubblicani era già emersa nel 2008 con l’endorsement a Obama, in cui vide la persona in grado di realizzare un’evoluzione del Paese di cui lui stesso era stato a lungo un testimonial.

Una dottrina disastrosa

Anche Powell, con la sua vicenda umana e professionale, ha dato un forte impulso al cambiamento dell’atteggiamento della maggioranza degli statunitensi verso gli afroamericani: è stato un simbolo della vitalità del sogno americano e dell’emancipazione della comunità afro-americana. Nato ad Harlem, quando era ancora il ghetto nero di Manhattan, da genitori emigrati dalla Giamaica, cresciuto nelle strade del Bronx, laureatosi all’università pubblica di New York, Powell, grazie alle sue doti di leadership e all’autorevolezza che percepivi quando gli stavi accanto, ha scalato la piramide sociale, militare e politica, arrivando ai massimi vertici delle forze armate Usa e della diplomazia mondiale.

Una sua eredità militare e politica è la “dottrina Powell”, elaborata alla fine della Guerra Fredda e “testata” all’inizio degli Anni 90 dalla Guerra del Golfo: l’enfasi messa sull’uso delle forze di terra nella difesa degli interessi di sicurezza nazionale. La guerra in Afghanistan e l’invasione dell’Iraq ne sono state applicazioni così disastrose nei risultati che la dottrina viene oggi messa in discussione.

L’omaggio del mondo politico Usa

“Abbiamo perso uno straordinario marito, padre, nonno e un grande americano”, scrive la famiglia su Facebook. Dal suo eremo texano, Bush nota: “L’America perde un grande servitore dello Stato”. Il presidente Joe Biden, che nel 2003 non si oppose all’invasione dell’Iraq, gli rende omaggio: rappresentava “gli ideali più alti della diplomazia e delle forze armate statunitensi”. E l’attuale capo del Pentagono, un generale nero, Lloyd Austin, dice: “Il mondo ha perso uno dei leader più grandi”.

Nonostante fosse figura controversa, non c’è traccia di polemica, nei saluti postumi a colui che fu chiamato il “guerriero riluttante”, che combatté e perse una sola, ma cruciale, battaglia sbagliata.

Foto di copertina EPA/DNCC

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