Il caso di Valery Garbuzov, l’ormai ex direttore dell’Istituto per lo studio degli Usa e del Canada dell’Accademia delle scienze russa, licenziato dopo aver pubblicato un articolo dal titolo programmatico “Le illusioni perdute di un’epoca al tramonto”, non è soltanto una ennesima storia di repressione della libertà di espressione in Russia. Per diversi motivi, di cui il primo è la figura stessa dell’autore: non propriamente un dissidente, né un oppositore, ma il capo di uno degli istituti di ricerca più prestigiosi di Mosca, una entità statale che da mezzo secolo era la fucina delle strategia di politica estera del Cremlino.
Il fondatore dell’Istituto (che oggi porta il suo nome) Georgy Arbatov è stato un mostro sacro della americanistica sovietica, consigliere e ghostwriter dei leader sovietici da Brezhnev a Gorbaciov, uno dei capofila dei riformisti che hanno prodotto la perestroika. Il fatto che il suo successore sia diventato un eroe della contestazione del regime di Vladimir Putin, e i suoi collaboratori improvviso focolaio di resistenza – con una lettera di solidarietà all’ex direttore, anche se poi è stata cancellata dal sito dell’Istituto – mostra quanto la restaurazione sovietica voluta dal presidente russo sia andata ben oltre l’originale al quale si ispirava.
La lettera di Garbuzov
Il passaggio più interessante dell’articolo di Garbuzov – pubblicato, altra circostanza curiosa, sulla Nezavisimaya Gazeta, testata moscovita allineata con il governo – non è nemmeno la diagnosi della “gravissima sindrome postimperiale” che affligge la Russia, stimolata da una “propaganda statale totale” che ha lo scopo di “immergere la società in un mondo illusorio…per mantenere il potere e le proprietà nelle mani dello stesso gruppo dirigente e del suo oligarcato”. Si tratta di una diagnosi cruda, ma non certo inedita sia nel dibattito internazionale che in quello degli oppositori russi.
Il punto cruciale è l’analisi delle “illusioni” menzionate fin dal titolo: Garbuzov rimprovera alla politica interna ed estera di Mosca di basarsi dal 1917 in poi su assunti totalmente ideologici e irrealistici, che hanno portato “al rapido collasso di un impero incapace di sopravvivere”. È una obiezione non tanto politica quanto metodologica, una invocazione a un cambio di rotta che non sarebbe solo politico, ma di visione: tornare alla “real politik”, a muoversi in base alle esigenze e alle possibilità, e non alle aspirazioni e ai risentimenti. Un ritorno al razionale, per eliminare quella dissociazione cognitiva che colpisce i russi comuni come i loro leader, ansiosi di proclamare l’imminente “degrado della civiltà occidentale”, insieme alla fine della “globalizzazione anglosassone”, per poi mettere il 60% dei risparmi in dollari (i primi) e mandare le famiglie a vivere in Occidente (i secondi).
L’appello a riconoscere che “la predominanza americana è un fattore costante di lungo termine”, e che “nessun talk show propagandistico riuscirà a estirpare la cultura occidentale assorbita dalla Russia”, è stato letto da molti osservatori come un segnale lanciato da quella parte “moderata” degli apparati putiniani che sembrava essere stata completamente tacitata dopo l’invasione dell’Ucraina.
Il Cremlino tra complottismo e “colombe”
Sicuramente le circostanze del licenziamento di Garbuzov – che non poteva non rendersi conto che nel clima di complottismo antiamericanista ormai diventato dottrina ufficiale sarebbe stato immediatamente proclamato “traditore” e “agente americano” – fanno pensare a una mossa che va oltre l’intolleranza personale di un accademico, diventato subito un potenziale portavoce delle “colombe”.
La denuncia delle “illusioni” rappresenta un raro esempio di ribellione delle stesse elite moscovite, di quei “tecnici” che potevano anche condividere parzialmente i risentimenti postimperiali e le ambizioni “multipolari” del Cremlino, senza però scadere in quella visione irrazionale del mondo che ha prevalso nella decisione di invadere l’Ucraina. È lo scontento degli apparati dello Stato considerati più evoluti e prestigiosi, come i diplomatici – la trasformazione del ministero degli Esteri russi in un ente di pura propaganda è stata sconcertante – e gli accademici istituzionali, espulsi dal processo decisionale a favore di pezzi dei servizi segreti, del propagandisti e di oscuri personaggi della “corte” putiniana, come i fratelli oligarchi Kovalchuk, il banchiere e magnate mediatico Yuri che pare abbia soggiogato la mente di Putin diventandone il compagno di lockdown, e Mikhail, il contestatissimo capo dell’Accademia delle scienze (alla quale l’Istituto dell’America è subordinato).
La proposta della quale Garbuzov si fa portavoce non è ancora nemmeno una distensione con l’Occidente, semmai l’invito a tornare a un “esame critico di eventi e processi”, e allo studio della realtà. Che curiosamente arriva proprio mentre dal Consiglio per la politica estera e difensiva – un’associazione di esperti vicina al Cremlino – arriva un nuovo rapporto firmato da Sergey Karaganov, il politologo di estrema destra diventato celebre per la predica degli attacchi nucleari all’Europa. La proposta di minacciare la “possibilità, necessità o inesorabilità di attacchi atomici circoscritti” contro Paesi alleati dell’Ucraina è presente anche nel nuovo documento, cofirmato da Dmitry Trenin (americanista istituzionale con curriculum molto prestigioso, inclusa la direzione del Carnegie Moscow) e da Fyodor Lukyanov (direttore della rivista “Russia nella politica globale”, considerato finora relativamente moderato), insieme a una serie di proposizioni utopiche come lo spostamento di milioni di russi per ripopolare la Siberia.
Sembra una illustrazione all’approccio “illusorio” criticato da Garbuzov, abbracciato più per ottenere inviti nei talk show e al Cremlino che per proporre una strategia reale e realizzabile. Una alternativa che corrisponde a una percezione diffusa quanto inconfessabile a Mosca: la Russia può uscire dalla crisi che ha aperto soltanto a marcia indietro, che però sembra non essere stata montata nel modello putiniano.
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