Trenta anni di fallimenti. A trenta anni dagli accordi di Oslo, si tirano le somme di un evento che al mondo fu venduto come l’inizio della pace in Medioriente, ma che di fatto era chiaro, forse anche agli stessi protagonisti, sicuramente ai locali, che non avrebbe cambiato nulla. Forse peggiorato la situazione. Cosa successa poi.
Perché gli accordi di Oslo sono stati un fallimento
Una serie di ragioni spiegano questo fallimento. In primo luogo, il modo con cui furono tenute le trattative. La segretezza ha aiutato in molti casi, ma quella che ha ammantato i colloqui in Norvegia, ha creato più problemi che altro e fratture in un mondo, quello palestinese, che era già ampiamente diviso.
Prima e mentre si discuteva a Oslo, con la conferenza di Madrid imposta dagli americani agli israeliani con l’intento anche di fermare l’intifada che infuriava, si era stabilito un modello nel quale si sedevano al tavolo i palestinesi come parte della delegazione giordana e siriana. Israele non discuteva vis-à-vis con i palestinesi. Non li riconosceva. Aveva interesse a portare dalla sua parte i paesi limitrofi, dopo l’Egitto. E ci riuscì successivamente con la Giordania.
Mentre formalmente si discuteva nelle diverse sedi della conferenza di Madrid, a Oslo segretamente israeliani e palestinesi faccia a faccia si accordavano. I palestinesi impegnati a Madrid non sapevano nulla di quanto stesse succedendo e vissero come un fallimento l’essere scavalcati così. Arafat invece colse la palla al balzo e, forse preso dall’euforia, si buttò su Oslo non considerando le conseguenze. Se infatti nella sua lettera di intenti riconosceva Israele come stato e nel suo esistere, rinunciava alle armi, faceva assumere all’Olp le responsabilità del rispetto delle intese, l’accettazione delle risoluzioni delle Nazioni Unite e altro, nella risposta israeliana, in poche righe, il premier israeliano Yitzhak Rabin, non parlava mai di diritti di palestinesi o altro. Insomma, come ritiene l’analista palestinese Mouin Rabbani, “in cambio di una serie di concessioni strategiche palestinesi, Israele ha magnanimamente accettato di negoziare i termini di resa dell’OLP”.
Dopotutto basta leggere il documento degli accordi di Oslo, le poche pagine chiamate ufficialmente “Dichiarazione di principi sulle disposizioni per un auto-governo ad interim”, per rendersene conto. In nessuna pagina, in alcun rigo si fa riferimento a uno stato palestinese. Si parla solo di un’area da gestire amministrativamente da parte di una entità palestinese per cinque anni (diventati sei volte tanto) rimandando tutte le discussioni ad un altro appuntamento. Quell’Oslo II a Camp David che fu il sigillo al fallimento precedente. Nella “dichiarazione” non si fa riferimento a profughi, non si fa riferimento a occupazione. Anzi, quando si parla di esercito israeliano, si parla di “ridistribuzione”, di nuovo schieramento, mai di ritiro, con Israele che “… manterrà la responsabilità per la difesa contro le minacce esterne, nonché la responsabilità per la sicurezza complessiva degli israeliani, allo scopo di garantire loro sicurezza interna e ordine pubblico.” (art. VIII).
È chiaro che questo ha portato con sé un altro simbolo del fallimento di Oslo: l’aumento della militarizzazione in Cisgiordania, l’incremento dei raid di sicurezza (che da Oslo in poi vengono concordati con l’Autorità Nazionale Palestinese) e il muro di separazione, oltre all’aumento degli insediamenti.
I protagonisti degli Accordi
Il fallimento di Oslo è probabilmente legato anche i suoi protagonisti finali, quel Rabin e quell’Arafat che davanti a Clinton si strinsero la mano il 13 settembre del 1993 sul prato della Casa Bianca. Rabin aveva bisogno di un gesto importante, per tentare di fermare le violenze esterne e interne. Un accordo annacquato era sicuramente meglio di nessun accordo. E dava credito a Israele nei confronti della comunità internazionale, anche verso i paesi arabi. Non a caso un anno dopo la firma di Oslo e sicuramente grazie a questo, Israele firma la pace con la Giordania. Finiscono alcuni boicottaggi internazionali e l’economia di Israele ne guadagna.
La morte violenta di Rabin, più che i governi di destra che l’hanno succeduto e che comunque hanno rallentato il processo attuativo di Oslo, ha significato uno stop importante per la trattativa settembrina del 1993.
Arafat probabilmente ci credeva davvero. Lui leader di un popolo senza stato. Allontanato anche da quelli che sarebbero dovuti essere suoi sodali. Leader di un insieme di persone che forse per questioni culturali più che politiche, erano frammentati in tanti gruppi. Era politico capace, si era accreditato con oratoria e atti come un leader riconosciuto dai più (anche se non da tutti). Aveva fatto molte aperture: nella dichiarazione di indipendenza del 1988, forse in segno di disponibilità, non cita i confini dello stato. Si fida delle intenzioni israeliane e anche per lui un pessimo accordo è meglio di nessun accordo.
Credeva di riuscire a creare qualcosa, sapeva che “il nemico” si insediava anche al suo interno. Era riuscito a ridimensionare le fazioni di sinistra e quelle islamiche all’interno della nutrita galassia palestinese e con Oslo far trovare credibilità all’Olp come un interlocutore attendibile vista la miriade di gruppi palestinesi presenti, alcuni dei quali avevano lanciato vere e proprie campagne di terrore in tutto il mondo. Non solo: essendo stato Arafat tra i pochissimi ad appoggiare, anche all’interno della Lega Araba, Saddam Hussein nella sua invasione del Kuwait e negli eventi successivi, Oslo gli ridiede credibilità.
Una soluzione (quasi) impossibile
È sintomatico il fatto che il primo premier palestinese da Oslo, dalla nascita dell’Autorità Nazionale palestinese, fosse stato dimesso da Arafat, presidente della stessa autorità, pochi mesi dopo il suo insediamento, per dissidi proprio con la presidenza. Si trattava di un certo Mahmud Abbas, meglio conosciuto come Abu Mazen, l’uomo che a 88 anni, nonostante la maggioranza dei palestinesi non lo voglia, continua a guidare il paese dal gennaio del 2005, poco meno di tre mesi dalla morte di Arafat. Da allora, senza elezioni. In molti, all’interno dei Territori Palestinesi, considerano lui e il suo gruppo di potere una sorta di ufficio distaccato di Israele.
Con queste premesse, uno stato palestinese non ci sarà mai. Nonostante Usa ed Europa continuino a puntare alla soluzione a due stati (almeno per gli americani in questo momento senza alcuna convinzione), non si vedono spiragli. Ma poi, che stato? Uno i cui confini sono tutti (ad eccezione dell’area di Gaza) con Israele. Una sorta di San Marino o Vaticano per l’Italia, o Andorra per la Spagna. Uno stato che non ha risorse, non batte moneta, che anche a causa della propria classe dirigente si è isolato da molti paesi arabi che prima lo sostenevano.
Non a caso, non sono in pochi nei Territori che sono convinti che l’unica soluzione sia la dissoluzione dell’Autorità Nazionale Palestinese, cosa che di fatto sancirebbe l’occupazione israeliana dei territori con tutto quello che comporta nel diritto internazionale. Dopotutto, Israele non ha fatto molto per far si che nascesse lo stato palestinese, anche giustamente dal suo punto di vista, e non lascerebbe territori tali ai palestinesi che questi possano poi controllare confini esterni.
Foto di copertina ANSA/AVI OHAYON PR/PAL