Dopo i primi cento giorni, gli scenari della guerra in Ucraina sembrano evolvere in un ulteriore inasprimento. L’ipotesi di individuare “corridoi del grano” si scontra già con reciproche diffidenze, ma è possibile che la pressione internazionale – specie dei paesi africani e asiatici che finora non hanno aderito alle sanzioni contro la Russia – possa favorire la mediazione della Turchia e dell’Onu.
Tuttavia, sulla prospettiva più generale della guerra c’è il forte rischio di una nuova escalation. Da un lato l’Ucraina, che non vuole rinunciare ai territori che in questa fase ha dovuto cedere nel Donbass, punta a rilanciare presto l’offensiva all’annunciato arrivo di nuove armi con maggiori gittate, mobilità e volumi di fuoco. Dall’altro la Russia, secondo le ultime dichiarazioni di Putin, sarebbe pronta a rispondere più in profondità con il suo potenziale strategico, e un segnale ha voluto darlo iniziando nuovamente a bombardare Kyiv e inasprendo le tensioni diplomatiche con tutto l’Occidente.
In definitiva, non ci si può esimere dalla considerazione che la comunità internazionale deve porsi il problema di presentare ora una forte iniziativa diplomatica per parlare di pace, non limitandosi alle sole dichiarazioni di condanna della guerra. Ora più che mai è necessario che su questo obiettivo entrino in gioco con più determinazione organizzazioni internazionali come l’Onu, il G7 e il G20, ma anche l’Unione Europea prima di tutto, e ogni altro attore che abbia la volontà e la capacità di proporsi come mediatore, a cominciare da Cina, India, Turchia e Israele.
Le posizioni ‘istituzionali’ dell’Italia
Sul punto è bene che l’Italia faccia una riflessione profonda, per chiarirsi le idee sul da farsi, specie ora che la Russia ha iniziato ad attaccarla direttamente sul piano diplomatico per gli aiuti militari concessi all’Ucraina e per asserite campagne “antirusse” promosse dai media nazionali. L’auspicio è che all’annunciato nuovo dibattito parlamentare sulla guerra, Roma esca fuori da ogni equivoco sugli aiuti militari ed economici all’Ucraina, e valuti però anche le exit strategy da promuovere con più determinazione.
L’Italia della politica e della diplomazia non può affidarsi all’attendismo, o peggio ai talk show e alle posizioni pretenziose di pseudo-esperti che ancora declamano abusate tesi antieuropeiste e antiamericane. Né si può lasciare che il dibattito politico interno in vista delle elezioni si esasperi ancora al punto tale che il Paese non sia coeso nel sostenere una road map per la pace in Ucraina.
È stato dunque un bene che certe posizioni siano state più recentemente chiarite dal presidente del Consiglio Draghi al Consiglio europeo e dal presidente della Repubblica Mattarella nel discorso alla diplomazia internazionale intervenuta – tranne quella russa, non invitata – alle celebrazioni del 76° anniversario della Repubblica Italiana.
Draghi è stato netto nel sostenere una radicale revisione della politica energetica europea perché non sia più dipendente dalla Russia, ed ha affermato: “È essenziale che Putin non vinca questa guerra”.
Il presidente Mattarella ha confermato la linea dell’Italia al fianco degli alleati euroatlantici e dell’Ucraina: “L’aggressione all’Ucraina da parte della Federazione Russa pone in discussione i fondamenti stessi della nostra società internazionale, a partire dalla coesistenza pacifica”. Ed ha aggiunto: “Trovarsi, nel continente europeo, nuovamente immersi in una guerra di stampo ottocentesco, che sta generando morte e distruzioni, richiama immediatamente alla responsabilità”.
Da qui la linea dell’Italia: “La Repubblica italiana è convintamente impegnata nella ricerca di vie di uscita dal conflitto che portino al ritiro delle truppe occupanti e alla ricostruzione dell’Ucraina”. E quindi “con lucidità e con coraggio occorre porre fine all’insensatezza della guerra e promuovere le ragioni della pace”, e gli obiettivi prioritari per la comunità internazionale sono altrettanto ben definiti: “superare ogni volontà di sopraffazione”, e “ripristinare la legalità internazionale”.
La proposta italiana all’Onu
Se questa è dunque la linea “istituzionale”, sarebbe il caso di ritornare a parlare del “piano Italia” già presentato dal Ministero degli Affari esteri all’Onu, ed anticipato anche al G7 e al Quint, il gruppo informale composto dagli Stati Uniti e dalle Big Four dell’ Europa occidentale, Francia, Germania, Italia e Regno Unito, che coordina le politiche di questi Stati in particolare nei rapporti con la Nato e l’Ocse.
I contenuti salienti della proposta si articolano su quattro punti: 1) il cessate il fuoco, a cominciare da alcune aree; 2) la neutralità dell’Ucraina, con la rinuncia ad aderire alla Nato; 3) ampie autonomie per Crimea e Donbass, confermando la sovranità dell’Ucraina; 4) un “nuovo patto” per la sicurezza europea e globale. La cornice dei vari punti prevede anche un sistema di “garanzie”, e un “Gruppo Internazionale di Facilitazione” (potrebbero esservi inclusi Turchia, Israele, Germania, Francia, ma anche Cina e India), che potrebbe prevedere anche lo schieramento di contingenti di pace, e gruppi di osservatori con poteri di monitoraggio sul rispetto degli accordi e un ruolo attivo nella ricostruzione.
I contenuti della proposta recano in sé indicazioni già elaborate da molti analisti internazionali nei mesi precedenti, e in alcuni tratti sembrano riproporre il modello di intesa su cui si sarebbe dovuto lavorare dopo gli accordi Minsk II del 2015. I “quattro punti” della proposta italiana rappresentano comunque le questioni da affrontare in qualunque negoziato sull’Ucraina, se si vuole che questo sia credibile nel tempo. Temi critici riguarderanno anche lo status dei nuovi territori ora occupati dai russi, le sorti dei prigionieri di Mariupol e dei vari cittadini ucraini costretti all’esodo forzato in sperdute regioni russe, nonché le responsabilità dei gravi crimini internazionali commessi nella condotta della guerra. Ma la questione centrale rimane la situazione di Crimea e Donbass, perché qui il diritto internazionale non consente divagazioni.
In base alle determinazioni dell’Onu e ai principi del diritto internazionale, i territori occupati dal 2014 permangono esclusivamente in una situazione di “occupazione de facto”, e la sovranità dell’Ucraina è stata sempre confermata de jure (Ronzitti), anche negli accordi di Minsk. In questi accordi già si parlava di iniziative referendarie per decidere solo forme di autonomia, e probabilmente su queste ipotesi c’è ancora spazio per negoziare. Ma è evidente che l’ostacolo sarà definire una cornice di garanzia, dove occorrerà decidere sull’occupazione russa.
Il pensiero corre dunque ai difficili modus vivendi di tanti scenari di occupazione territoriale, a cominciare da quello cipriota e quello israelo-palestinese, che occorrerà evitare. È certo, comunque, che da una guerra di aggressione non possono derivare “annessioni” o riconoscimenti territoriali, per cui sarà necessario giungere ad una intesa tra le parti, su cui solo l’Ucraina, liberamente, potrà decidere se fare concessioni. Altrimenti non rimangono che i “mezzi pacifici di risoluzione delle controversie” che sono ben disciplinati dalla Carta delle Nazioni Unite: una decisione dell’Assemblea Generale (dato che sarà difficile superare il veto russo nel Consiglio di Sicurezza), una mediazione terza, una inchiesta affidata a una Commissione di esperti indipendenti, un arbitrato o il deferimento alla Corte internazionale di giustizia.
Non va poi sottovalutato l’ultimo aspetto della proposta, dove si fa riferimento ad un “accordo multilaterale sulla pace e la sicurezza in Europa”. È una apertura non di poco: la proposta dall’Italia prevede la ripresa delle misure di disarmo e controllo degli armamenti, di “prevenzione dei conflitti” e di “rafforzamento della fiducia”, modelli tipici del “processo di Helsinki” che può essere riaperto a nuove intese, di cui la Russia dovrebbe tenere debito conto.
Conclusioni: l’idea per una ‘exit strategy europea’
In definitiva, la proposta italiana ha ancora una sua ragion d’essere, ma perché non rimanga “sulla carta” occorre non fermarsi. Sta ora all’ Italia decidere se rilanciarla – stavolta con una maggiore coesione interna – magari puntando a proporla nel contesto di una leadership europea, costituita da Italia, Francia, Germania e Spagna, come base di discussione per una “exit strategy europea”, comunque necessaria. Sarà quindi più facile negoziarla con gli attori interessati – che ad una Unione europea coesa potrebbero dare maggiore credito – o portarla anche di fronte all’Assemblea Generale, per trovare convergenze sui punti in questione o individuarne altri: questo è il lavoro della diplomazia, e questo è quanto indispensabile fare, al più presto.
Foto di copertina EPA/STEPHANIE LECOCQ