Chi segue le vicende mediorientali in questi giorni ha la sensazione di continui déja-vu. Scontri tra polizia e manifestanti sulla Spianata delle Moschee o Monte del Tempio, marce di estremisti ebrei dinanzi ai luoghi musulmani, esposizione di bandiere e striscioni pro-Hamas nei luoghi sacri islamici, razzi da Gaza e conseguente risposta militare di Israele sulla Striscia, blocco degli accessi per i palestinesi. Un copione che si ripete troppe volte, che per un breve lasso di tempo sembrava sopito e che l’anno scorso, a maggio, ha portato allo scontro armato tra la Striscia e l’esercito israeliano, che ha lasciato quasi trecento vittime totali.
In nessun altro luogo del mondo, l’applicazione della terza legge della dinamica sull’azione e reazione, anche se è difficile stabilire se uguale, inferiore o superiore, avviene come qui in termini politici. Quasi come se le parti si aspettassero azioni. Per ragioni diverse.
Il declino dell’Autorità nazionale Palestinese
Dal lato palestinese, la situazione è alquanto chiara. Il governo in carica e, soprattutto, l’amministrazione statale (se di Stato si può parlare applicato all’Autorità nazionale Palestinese), ha perso gran parte del sostegno popolare. Le folle infiammate da Arafat sono un lontano ricordo. Fatah a guida Abu Mazen è solo un lontano ricordo del movimento che per anni ha portato in giro per il mondo, nei consessi internazionali e nei teatri di guerra e nelle piazze pure del terrore, le istanze del popolo palestinese.
Oggi Fatah e l’ottuagenario leader di Ramallah hanno perso il consenso che avevano, soprattutto per essere considerati corrotti, collusi con l’oppressore, attaccati alle poltrone e incapaci di mantenere le promesse. Come quelle di tenere elezioni, che mancano dal 2006 e che sono state cancellate all’ultimo l’anno scorso aumentando la frustrazione popolare.
C’è una intera generazione di giovani che in Palestina non ha mai votato, che si convince e abbraccia la lotta armata perché vede questa come unica via verso la nascita dello stato palestinese. E questo, anche grazie al grande, in senso quantitativo, lavoro comunicativo sotterraneo che Hamas e i suoi sodali hanno fatto fuori dalla Striscia. Soprattutto nelle università, dove negli ultimi tempi hanno trovato terreno fertile fra i giovani scontenti.
Violenza come strategia propagandistica
Hamas sa che lanciare razzi contro Israele è una mossa comunicativa. I danni che riesce a provocare (volontariamente o involontariamente) sono irrisori, sia per le capacità belliche dello Stato ebraico, sia per un arsenale che, seppur fornito, a volte dà l’impressione di essere inadeguato.
Nessuna azione terroristica, nessun lancio di razzi contro civili o militari, nessun uso di armi può essere tollerato: Hamas lo fa perché sa che così dimostra di essere l’unico baluardo difensore verso l’autodeterminazione palestinese. Propaganda. La stessa a cui si attiene Israele quando, di risposta, bombarda obiettivi militari di Gaza, per dare una risposta ad una popolazione che vede un governo governare senza maggioranza, che comincia a rimpiangere i tempi dell’uomo forte Netanyahu, durante i quali si sono registrati pochi casi del genere.
Provocazioni. Come quelli dei gruppi estremisti di destra, coloni, che non riconoscono neanche lo stato di Israele, e che hanno annunciato di voler sacrificare un agnello sul Monte del Tempio come si faceva al tempio di Cristo e prima. Lo Shin Bet, i servizi interni israeliani, non li ha neanche fatti finire di parlare che ha arrestato immediatamente i sei che avevano annunciato il sacrificio, che poi vorrebbero anche ricostruire il tempio, il terzo, sul luogo dove Isacco sarebbe dovuto essere sacrificato da suo padre Abramo. Dopotutto i rabbini ebrei vietano ai fedeli di andare a pregare sul Monte. Questo perché, poiché non ci sono mappe dettagliate di come doveva essere il tempio distrutto prima dagli assiro Babilonesi nel 586 a.C. e poi dai Romani nel 72 d.C., si rischia di calpestare suolo sacerrimo.
Eppure, solo l’annuncio è bastato ad altri “propagandisti” di professione per innalzare i toni, mischiandosi tra i fedeli musulmani sulla Spianata per le preghiere di Ramadan. Infiltrati terroristi hanno brandito e sventolato bandiere di Hamas, innalzato striscioni inneggianti alla guerra Santa, accumulato e lanciato pietre contro fedeli, ebrei e poliziotti, creato barricate, sparato fuochi di artificio contro gli agenti. Aspettandosi la ovvia reazione degli agenti di polizia.
Provocazioni dentro e fuori, con la chiusura ai palestinesi dei check point se non a donne, bambini e over 50; marcia della destra ebraica sotto il naso dei musulmani alla porta di Damasco vietata, bloccata e deviata dagli agenti. Il tutto contornato dalla solita ridda di accuse, reciproche, e di condanne da parte dei paesi arabi. Gli stessi che però negli ultimi tempi hanno mostrato grande insofferenza verso le politiche di Ramallah, e che invece si sono avvicinati a Israele.
Prospettive per il prossimo futuro
La fine del periodo delle feste religiose più importanti (Ramadan per i musulmani, Pasqua per gli ebrei), che quest’anno è coinciso, dovrebbe portare un allentamento delle tensioni. Difficile che si possa arrivare a una terza intifada o ripetere quanto successo a maggio scorso, anche se sotto il fuoco cova molta cenere rappresentata dagli stessi irrisolti problemi e dalle risposte non date da governi inesistenti.
Israele deve affrontare una nuova crisi politica nella quale Netanyahu è sempre più avanti e sfrutterà questo momento con la propaganda del “si stava meglio quando si stava peggio”. L’Autorità Nazionale Palestinese deve inventarsi qualcosa per riprendere il consenso soprattutto tra i giovani con iniziative che dovrebbero rosicchiare consensi ad Hamas e simili e andare alle elezioni. O, come chiedono in molti, avere il coraggio di sciogliersi, facendo ricadere la patata bollente su Israele.
Foto di copertina EPA/ABED AL HASHLAMOUN