22 Dicembre 2024

Cronache di Ivano-Frankivs’k: città post-sovietica colpita dalle bombe russe

Di Ivano-Frankivs’k non si sapeva granché, sino a quando gli invasori russi non hanno deciso di spingersi con i loro bombardamenti sino all’estremo Ovest dell’Ucraina, proiettandola inopinatamente all’attenzione del mondo. È il capoluogo di una provincia essenzialmente agricola, non lontana dalle frontiere romena e moldava quasi ai piedi dei Carpazi, dove stanno crescendo delle stazioni sciistiche moderne con l’onnipresente coda di aggressiva speculazione edilizia, che avrebbero dovuto attrarre un turismo internazionale, soprattutto tedesco.

Ho potuto farmene un’idea durante una missione di osservazione delle elezioni vinte nel 2019 da Zelensky, con un risultato che gli elettori di una provincia prevalentemente agricola e conservatrice avevano accolto con favore misto a sorpresa.

Il marchio sovietico

Leopoli era geograficamente vicina, ma non avrebbe potuto essere più lontana per tutto il resto. Non c’era qui ombra dei palazzi e delle splendenti architetture barocche; gli edifici pubblici erano un misto di Ottocento e di sovietico e gli sforzi per dare un tono più moderno e “occidentale” alla città, creando aree pedonali e nuovi spazi aperti, non cancellavano la sensazione di generale grigiore così familiare nella vecchia Urss. A partire dal modesto aeroporto, orgogliosamente definito internazionale, da cui partivano pochi voli per l’estero prima che venisse ora distrutto a suon di bombe.

Appena fuori dal centro resistevano le “krusciovke”, quelle costruzioni in cemento prefabbricato tutte uguali, con cui su iniziativa di Krusciov si cercò di fare fronte alla crisi abitativa dell’Urss; altrove sono state restaurate, o quantomeno ridipinte, mentre qui erano rimaste perlopiù cadenti nel loro edilizio squallore. Si alternavano con le vecchie izbe in legno, circondate da piccoli orti che davano la sensazione di una vita che continuava a scorrere, anche se molto poveramente, intervallate ogni tanto da altre, molto più grandi e in mattoni (le si vedeva da lontano, grazie alle volute dei grandi cancelli in ferro battuto che le sovrastavano), testimonianza dei guadagni fatti all’estero da qualche emigrante e rappresentazione esibita del nuovo status raggiunto dalla famiglia, confermato da grosse automobili quasi sempre tedesche parcheggiate bene in vista davanti all’ingresso (diverse, arrivate attraverso non si sa quali canali, mostravano ancora la targa italiana che avevano quando erano state “importate”).

La città conservava un impianto nell’insieme solido, in cui i tentativi di modernizzazione occidentale non cancellavano del tutto l’impronta sovietica. Quando se ne usciva tuttavia, le cose cambiavano: al di fuori delle vie asfaltate di comunicazione principale, le strade assomigliavano spesso a tratturi, pieni di buche e l’asfalto era una memoria lontana. Ci si muoveva a non più di dieci-quindici chilometri all’ora e i tempi di percorrenza fra un villaggio e l’altro prendevano un sapore Ottocentesco; si vedevano molti carretti a cavallo accanto alle indistruttibili Lada, copie russe della Fiat 124, le uniche in grado di affrontare senza danni queste strade.

Il dibattito politico su Ivano-Frankivs’k 

L’impressione era quella di una generale arretratezza che ricordava la Polonia degli anni Settanta, che ho conosciuto bene e dove la campagna era altrettanto remota e le città offrivano pochi e sbiaditi richiami.

La Polonia era intanto profondamente cambiata, mentre qui l’impressione era che di strada da fare ce ne fosse ancora molta. La Polonia è riuscita a modernizzare la propria agricoltura, attraverso un programma di privatizzazioni non troppo invasivo; qui per contro si vedeva ancora l’impianto estensivo delle vecchie fattorie collettive, la riforma agraria sembrava aver funzionato solo in parte e il tentativo di grossi gruppi di ricreare grandi dimensioni si era tradotto in una paralisi decisionale che generava tensioni.

Il granaio d’Europa, insomma, appariva ancora in cerca di una soluzione ed era chiaro come l’ostacolo principale all’adesione dell’Ucraina all’Ue non fosse (e non sia ancora) prima che politico, strutturale. Anche così, tuttavia, l’Ucraina continuava ad essere un polo di attrazione per un’immigrazione bielorussa ancor più arretrata.

Era una democrazia imperfetta, quella ucraina che ho visto a Ivano-Frankivs’k, specie nelle zone rurali più distanti, dove impianto amministrativo e schemi mentali rimanevano spesso legati alla tradizione sovietica. Ma di una democrazia si trattava e il dibattito politico era largamente sentito. Alle elezioni presidenziali concorrevano una dozzina e più di candidati, le schede di voto erano lunghe poco meno di un metro e non tutti i candidati erano completamente credibili: in un elettorato largamente nazionalista – dove polacco e russo avevano ceduto quasi ovunque il passo all’ucraino – resistevano qua e là tracce di monumenti a personaggi di un passato largamente rimosso, ma le scelte offerte agli elettori erano reali.

La consapevolezza democratica era a volte magari ingenua, ma sempre fortemente sentita; la seduzione dell’occidente c’era, ma non incideva sul fatto che le elezioni fossero viste come uno strumento attraverso il quale rafforzare in autonomia la propria indipendenza. Dei condizionamenti interni e internazionali inventati da Putin non c’era traccia.

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