Mentre il mondo affronta le sfide della pandemia e del clima, assiste con preoccupazione al motore ingolfato delle catene produttive globali, si interroga sulla tenuta dell’Amministrazione Biden già alla mid-term di autunno, è alle prese con il rischio di una nuova conflagrazione nel cuore dell’Europa, in un piccolo lembo di Medio Oriente – le Alture del Golan – si consuma, pressoché ignorata dalle nostre opinioni pubbliche, una nuova sequenza di uno dei tanti conflitti che hanno investito la regione nei decenni.
Il progetto di Bennet per le Alture del Golan
Il progetto annunciato il 26 dicembre dal Primo Ministro israeliano Bennet assomiglia per molti versi al controverso ‘Deal of the Century’ che il duo Trump/Kushner aveva congeniato nel febbraio 2020 per i Territori Occupati della Cisgiordania, azzerando gli Accordi di Oslo. In larga sintesi, si trattava di legalizzare una volta per tutte gli insediamenti dei coloni israeliani esistenti e futuri, scartando l’ipotesi del rientro dei rifugiati e di un qualsiasi Stato palestinese agibile, in cambio di massicce compensazioni finanziarie.
Obiettivo primario: garantire la sicurezza di Israele, se possibile con la collaborazione dell’Anp per tenere a freno i settori palestinesi più radicali, in particolare Hamas. Seguiva l’imbarazzo di Abu Mazen, che alla fine ha abbozzato, l’apprezzamento’ di Arabia Saudita, Emirati, Egitto di Al-Sisi, e per contro la malcelata perplessità della Giordania (nell’eventualità di ulteriore esodo di palestinesi e magari di una futura Federazione giordano-palestinese), e quella della Turchia (sfumate le mire di mantenere un’influenza presso i palestinesi, ivi incluso Hamas). Tiepide le obiezioni dell’Europa, accorato il richiamo delle Nazioni Unite alla legalità internazionale. Bocciatura senza appello di Teheran, che definiva il progetto ‘il tradimento del secolo’ cogliendone la sottesa valenza anti-iraniana.
Anche per le Alture del Golan siriano si tratta ora di consolidare e aumentare la presenza di coloni (almeno 50.000?), di soprassedere al rientro dei rifugiati del 1967 (almeno 100.000?), e di compensare siriani e drusi residuali (circa 20.000) con importanti programmi di investimento ancorché diretti ai coloni stessi. Analogo obiettivo, la sicurezza di Israele. Questa volta chiaramente nei confronti dell’Iran, principale sostenitore della Siria di Assad, e affiliati.
Le differenze rispetto al ‘deal of the century’ sono, in primo luogo, che il Golan non è territorio storicamente conteso, ma porzione di territorio perso dalla Siria con la guerra arabo-israeliana del 1967 e non recuperato con quella del 1974 e, in secondo luogo, che senza ambiguità alcuna la risoluzione ONU 497/1981 dichiara ‘nul and void’ l’annessione decisa da Israele nello stesso anno, e la miriade di risoluzioni sulla crisi in Siria ne statuiscono l’integrità territoriale. Solo Trump nel 2019 ha riconosciuto la ‘sovranità’ israeliana nel Golan. In questi quarant’anni di occupazione, Israele ha trasformato villaggi ridotti in macerie in cittadine abitate da coloni, piantato vigneti, costruito infrastrutture. Le decine di ettari ancora coltivati dai drusi ospiteranno ora campi solari e eolici e programmi ad alta tecnologia volti allo sviluppo del territorio.
La strategia israeliana anti-Iran
In sostanza, il ‘recupero’ del Golan siriano è un tassello della strategia israeliana di contenimento, o meglio respingimento dell’Iran dalla regione siro-libanese, a partire dalle preziose acque del Lago di Tiberiade fino allo sgombero di presenze militari fisse o in transito verso il Libano. La strategia ha registrato in questi anni la scorribanda di raid sulla Siria contro postazioni iraniane e convogli di forniture militari destinate a Hezbollah, gli ultimi due da ultimo sui container alla fonda nel porto di Latakia.
Di nuovo in queste ore un lancio di missili israeliani ha colpito le vicinanze di Damasco in risposta ad attacchi provenienti dal Golan, in una dinamica che segnala una escalation della conflittualità. Le reazioni israeliane ai raid sono anche un ennesimo monito a Washington che tramite i P3 sta negoziando con Teheran sul JCPOA: un rischio di ‘riabilitazione’ dell’Iran che Israele non intende correre. E anche un monito alla Siria di Assad – che non è mai stata di per sé un obiettivo di Israele – perché si svincoli dal suo alleato primario: “la soluzione in Siria è una: il ritiro completo delle forze iraniane; e Israele farà tutto il necessario per la sua sicurezza” ha dichiarato alla nostra stampa l’Ambasciatore Dror Eydar. Un’affermazione che sembrerebbe un programma di lavoro.
Peraltro, gli Accordi di Abramo sponsorizzati da Trump nel 2020, e confermati da Biden, hanno favorito l’avvicinamento di Israele al mondo arabo, e indirettamente anche i collegamenti diplomatici degli Emirati e quelli di intelligence dell’Arabia Saudita con la stessa Damasco. Né Mosca, che ha due basi a pochi chilometri da Latakia, sta alzando la voce, a riprova che le sue convergenze tattiche con Teheran si collocano pur sempre nel contesto di una competizione strategica. Quanto all’Europa, siamo tutti piuttosto concentrati sul fronte Est. La Siria è scomparsa dalla nostra visuale, nel Grande Medio Oriente campeggia semmai l’Iran e il rischio di proliferazione nucleare che la sua politica potrebbe innestare.
La connivenza europea e della comunità internazionale
Il silenzio della comunità internazionale attorno all’annuncio israeliano sul Golan suona come connivenza. In larga sintesi, è come se Bennet, alla guida di una coalizione cui partecipa anche il partito arabo Raam, nell’annunciare al mondo il progetto prima di lasciare l’incarico a Yair Lapid la prossima estate, abbia interpretato un comune sentire, la priorità è fermare Teheran e il suo programma nucleare e missilistico. L’Iran del Presidente Raissi sta pericolosamente avvicinandosi alla soglia di 90% di arricchimento dell’uranio che consente l’arma atomica, ha ridotto il monitoraggio AIEA sugli impianti, inaugura nuovi programmi satellitari coniugati alla missilistica, persegue la sua politica di espansione per procura dal Golfo Persico al Mediterraneo, e ad oggi non segnala cedimenti sul piano negoziale per il nucleare.
In qualche modo Israele, esposto in prima linea sul fronte, coglie nel segno le preoccupazioni collettive e pensa di farsene carico. In tal caso, la prospettiva sarebbe un ‘nuovo ordine’ in Medio Oriente governato da Israele in collaborazione con gli Arabi? E come gestire l’Iran? Pensiamo che Teheran si limiterebbe ad abbozzare? Meglio, incluso per l’Europa, fiancheggiare con convinzione gli Stati Uniti nel negoziato JCPOA, contribuendo a una svolta sostanziale in quello che è certamente lo snodo cruciale vuoi per evitare un rigurgito di conflittualità nello scenario mediorientale vuoi per sventare il rischio di proliferazione nucleare. E, tra l’altro, meglio evitare di infliggere un ulteriore vulnus nella già precaria efficacia e credibilità delle risoluzioni dell’ONU.
Foto di copertina EPA/GIL COHEN-MAGEN / POOL