Il processo decisionale interno influenza le scelte degli attori in politica estera. Ciò è particolarmente vero nel caso del Regno dell’Arabia Saudita, che dal 2015 ha conosciuto una trasformazione senza precedenti della sua struttura politica, del suo contratto sociale e della sua politica regionale. Il nesso tra politica interna ed estera è vitale se si guarda ai cambiamenti di leadership che hanno avuto luogo e che hanno influenzato la posizione saudita nelle relazioni internazionali.
Un articolo recentemente pubblicato sull’International Spectator esamina il nesso tra politica interna ed estera saudita, sottolineando come il re Salman e il suo figlio prediletto Mohammad Bin Salman (MbS) stiano trasformando la monarchia dinastica secondo un nuovo paradigma politico ‘verticale’. Questo breve intervento, invece, si sofferma sulla rilevanza di questo cambiamento politico utilizzando tre argomenti per illustrare quanto il processo decisionale interno influenzi le scelte degli attori in politica estera: il paradigma top-down nel processo decisionale, la questione della legittimità e l’agenda interna nazionalista e populista che caratterizza la leadership del principe MbS.
Il paradigma top-down
Per quel che riguarda il primo aspetto, il paradigma top-down ha permesso un processo decisionale interno più deciso e rischioso, che ha influenzato sia gli esiti sia le scelte della politica estera del Regno. Il grande cambiamento della politica estera saudita, passata da una diplomazia che consisteva nel non sovraesporsi mai e nel dare priorità al dialogo a una politica regionale assertiva, è anche il risultato della frattura generazionale che caratterizza l’attuale leadership saudita ‘duale’, che è portatrice di due visioni divergenti del mondo. Questa leadership duale è caratterizzata, da un lato, dall’esperienza pluridecennale di re Salman e dal suo forte credo nella geopolitica tradizionale e, dall’altro, dalla visione di suo figlio.
A poco più di 35 anni, MbS è poco esperto in ambito militare e di politica internazionale, e non condivide la cultura politica della generazione paterna, ma tende piuttosto a sposare una visione del mondo prevalentemente imprenditoriale e orientata alla tecnologia. MbS mira ad elevare il suo paese a potenza economica araba attraverso il programma Vision 2030. Re Salman sostiene invece fortemente una soluzione equa per i palestinesi e si oppone agli Accordi di Abramo. Crede che la Palestina sia una causa pan-islamica e non considera i Fratelli Musulmani come una minaccia esistenziale.
Da parte sua, il principe Mohammad, pur non contraddicendo mai apertamente la linea del padre, ha abbracciato un orientamento più favorevole a Israele, intravedendo i vantaggi che un avvicinamento a Tel Aviv assicurerebbe in termini di trasferimenti tecnologici e di conoscenza per il suo progetto futuristico NEOM. Tuttavia, conoscendo la profonda opposizione di gran parte della popolazione saudita alla normalizzazione con Israele, il principe ereditario Mohammad ha astutamente evitato di affrontare la questione, lasciando che la stampa sotto il suo controllo esprimesse pienamente il proprio malcontento a riguardo.
La questione della legittimità
Il secondo aspetto è legato alla fondamentale questione della legittimità del principe ereditario, diventato l’erede al trono saudita in spregio ai meccanismi tradizionali della famiglia reale. Di conseguenza, il principe ha sviluppato una strategia per riaffermare la propria legittimità, mirando ad affermarsi come nucleo portante della famiglia reale e, parallelamente, cercando la legittimazione popolare e utilizzando il suo carisma personale come strumento essenziale per attrarre i giovani sotto i trent’anni.
L’agenda interna tra nazionalismo e populismo
In terzo luogo, l’agenda interna del principe Mohammad si basa su una retorica nazionalista e populista che ha portato a esacerbare la sua già assertiva politica estera. Un esempio lampante è l’accerchiamento iraniano dell’Arabia Saudita, che galvanizza il sentimento nazionale. Toni nazionalisti erano stati usati anche per denunciare l’alleanza qatariota-turca prima della riconciliazione in occasione del vertice di Al Ula il 5 gennaio 2021. Inoltre, toni simili si ritrovano anche nel nuovo approccio a cause come la Palestina o il Libano. Questo riflette un profondo cambiamento generazionale nella politica estera saudita, in cui gli interessi nazionali prevalgono sulle questioni arabe e islamiche.
Globalizzazione, tecnologia, nazionalismo
In conclusione, questi tre elementi sono alla base del nuovo volto autoritario assunto dalla leadership saudita, che incorpora aspetti di modernità – sposando un modello globale di società e incentivando l’accesso all’alta tecnologia – e una narrazione iper-nazionalista, che si combinano con una politica interna repressiva e con una politica assertiva a livello regionale.
Tuttavia, un’evidente svolta nella politica regionale è in corso dopo il vertice di Al Ula e in seguito alla decisione del presidente statunitense Biden di non parlare con il principe ereditario Mohammad. La nuova leadership sembra aver imparato dalla sua fallimentare politica assertiva, avviando un dialogo e riavvicinamento con tutti i suoi rivali regionali, come la Turchia e persino l’Iran, proteggendo al contempo i suoi interessi vitali nei confronti di Teheran e del suo confine meridionale con gli Houthi in Yemen e sviluppando le importanti relazioni economiche con la Cina.
Questo articolo è una traduzione dalla sua versione originale, in inglese, scritta dall’autore per il blog di The International Spectator, la prima rivista scientifica di peer-review italiana in lingua inglese, isituita nel 1966 e pubblicata da Routledge. The International Spectator è una pubblicazione curata da Leo Goretti e Daniela Huber.
Foto di copertina EPA/BANDAR ALJALOUD/SAUDI ROYAL COURT