Negli ultimi dieci anni, dopo gli sconvolgimenti delle Primavere arabe, gli equilibri regionali nell’area del Medio Oriente e del Golfo Persico hanno attraversato una fase di profonda trasformazione. Il nuovo scenario che si è andato delineando è contraddistinto dalla compresenza di tre potenze regionali – Turchia, Arabia Saudita e Iran -, sempre più poli di riferimento per altri paesi e attori della regione.
Parallelamente, alcuni degli stati più piccoli, come il Kuwait e l’Oman, si sono ritagliati un ruolo da mediatori, mentre la più importante istituzione sovranazionale dell’area del Golfo, il Consiglio di cooperazione del Golfo, è entrata in uno stato di impasse a causa delle tensioni tra i paesi membri, culminate nell’embargo contro il Qatar da parte di Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti e Bahrein tra il 2017 e il 2021.
Per comprendere appieno le dinamiche regionali, lo sguardo deve necessariamente abbracciare la situazione interna ai singoli paesi, il modo in cui politica estera e politica interna si intrecciano nel plasmare le scelte dei diversi attori in campo. è questa la prospettiva di fondo che caratterizza gli studi raccolti nell’ultimo fascicolo di The International Spectator, “Between the Domestic and the International: Ideational Factors, Peacebuilding and Foreign Policy in the Middle East and the Persian Gulf”, a cura di Olivia Glombitza e Kristian Coates Ulrichsen.
Il dialogo iraniano nel Golfo
Nel caso dell’Iran, per esempio, al di là della retorica ufficiale fortemente ideologica e dell’attivismo del Corpo delle guardie della rivoluzione islamica fuori dai confini del paese, il periodo della presidenza di Hassan Rouhani si è contraddistinto anche per i ripetuti tentativi del governo di lanciare iniziative di dialogo con gli altri stati del Golfo. Il delicato equilibrio tra ideologia e pragmatismo nella politica estera di Teheran è ben sintetizzato dai tre principi guida della politica estera iraniana: dignità, saggezza e opportunità, che sono il diretto portato dell’esperienza rivoluzionaria del 1979, fondata sulla riaffermazione dell’indipendenza del paese da influenze esterne.
L’Arabia Saudita verso un approccio moderato
Considerazioni di politica interna sono anche alla radice della politica estera saudita degli ultimi anni, fortemente condizionata dalla nuova leadership “duale” di re Salman e del giovane principe ereditario Mohammed bin Salman, la cui nomina ha eluso i meccanismi tradizionali della famiglia reale saudita. Alla ricerca di una legittimazione personale nel paese, il principe ereditario ha inizialmente adottato uno stile diretto e populista in politica interna, che si è tradotto in una retorica assertiva e in scelte azzardate in politica estera, come nel caso dell’intervento in Yemen. Più di recente, tuttavia, bin Salman ha virato su un approccio più moderato e conciliante, specie nei confronti dell’Iran, affermando di aspirare ad una relazione “buona e speciale” con Teheran. Fattori di carattere economico e strategico potrebbero effettivamente spingere a un riavvicinamento tra Iran e Arabia Saudita: precondizione fondamentale perché ciò possa avvenire è il superamento da parte delle leadership di entrambi i paesi di una retorica fondata sulla rappresentazione dell’altro come una minaccia.
La diplomazia turca in Siria e Qatar
A fianco di Riad e Teheran, il governo di Ankara si è affermato negli ultimi anni come la terza potenza regionale di riferimento. Emblematico è in questo senso il ruolo che la Turchia ha svolto in uno dei teatri di crisi nella regione, quello siriano: nei confronti della Siria i governi dell’AKP di Erdogan hanno portato avanti iniziative presentate inizialmente come forme di diplomazia umanitaria (riguardo alla questione dei rifugiati), e poi progressivamente riarticolate in termini di sicurezza nazionale in conseguenza del mutato clima politico nel paese. Altro fronte di notevole attivismo è stato quello qatariano: i buoni rapporti tra Doha e Ankara si sono ulteriormente rafforzati a partire dal 2017, quando il governo turco ha fornito un supporto fondamentale al Qatar stretto dalla morsa dell’embargo saudita ed emiratino. L’alleanza tra Turchia e Qatar è stata cementata da una comune retorica incentrata sulla promozione di un islamismo “dal basso”, in contrapposizione all’islamismo “dall’alto” sostenuto tradizionalmente dalla monarchia saudita.
I “pontieri” del Golfo Persico
A svolgere un ruolo da pontieri tra le tre potenze regionali, negli ultimi anni, si sono affermati due piccoli stati con una lunga tradizione da mediatori, Kuwait e Oman. Nel caso del Kuwait, questa funzione è stata indubbiamente facilitata dalla presenza al vertice di un leader di grande esperienza e con un notevole prestigio personale come l’emiro Sabah al-Sabah. L’Oman si è ritagliato un ruolo da mediatore anche grazie alla costruzione di una complessa e articolata rete di relazioni e alleanze anche extraregionali; per il governo di Muscat, svolgere una funzione di mediazione è anche un modo per contenere e prevenire possibili tensioni all’interno del paese. Al contrario, il Consiglio di cooperazione del Golfo ha dimostrato una sostanziale incapacità di contribuire al superamento delle ripetute crisi che hanno flagellato uno dei contesti di maggiore instabilità nella regione, quello yemenita. Solo uno sforzo finalizzato a promuovere una trasformazione profonda delle strutture sociali e a superare le profonde disuguaglianze all’interno del Paese potrebbe garantire infatti una pace duratura in Yemen.
Foto di copertina EPA/BANDAR ALAJALOUD/SAUDI ROYAL COURT