Di fronte a una delle più gravi crisi politiche dagli accordi di pace di Dayton nel 1995, numerosi osservatori nazionali ed internazionali hanno versato vino nuovo in otri vecchi, denunciando il pericolo del ritorno alla guerra in Bosnia-Erzegovina. Il problema della Bosnia-Erzegovina odierna, tuttavia, non è tanto la minaccia di un ritorno alla violenza o alla guerra, per la quale, come sottolineato da Dejan Jović, non ci sono più le circostanze che l’hanno resa possibile negli anni ’90.
Le difficoltà che investono la Bosnia-Erzegovina oggi sono piuttosto legate alla definizione delle modalità e tempi del trasferimento di sovranità dagli attori internazionali a quelli nazionali, e la mancanza di volontà di raggiungere un nuovo compromesso tra le forze all’interno del Paese.
Le minacce politiche alla stabilità
La struttura degli accordi di Dayton si è dimostrata tutt’altro che fragile, soprattutto in termini di sicurezza. Dayton ha fermato la guerra. La tregua ha tenuto e, per 25 anni, non vi è stato nessun serio tentativo di riprendere il conflitto, nessuna formazione di gruppi terroristici né attentati politici, come è invece successo in alcuni dei paesi vicini. Inoltre, Dayton ha affermato la continuazione della Bosnia-Erzegovina come Paese unitario e sovrano, un aspetto fondamentale per l’ulteriore evoluzione giuridica dello stato. Ed è proprio su tale evoluzione che si articola la crisi di oggi, non su una riedizione del passato.
Nello specifico, la crisi di oggi ha due facce. La prima riguarda le minacce fatte dal membro serbo della presidenza dello stato bosniaco, Milorad Dodik, di ritirare la Repubblica Srpska dalle istituzioni statali e formare delle istituzioni parallele attraverso più di 100 atti legislativi. Le sue minacce includono il ritiro dalle forze di difesa, dalla magistratura, dalla riscossione delle tasse e delle dogane e dai servizi di intelligence, tra molti altri. Eppure, negli ultimi 15 anni, Dodik ha minacciato la dissoluzione della Bosnia-Erzegovina così tante volte che ormai le sue intimidazioni difficilmente vengono prese sul serio.
Ma allora cosa rende questo episodio diverso da molti altri? Il fatto che questi attacchi abbiano avuto un preciso fine polemico indirizzato alla presenza internazionale nel Paese e, in particolare, i giudici internazionali della corte costituzionale bosniaca e l’ufficio dell’Alto rappresentante Onu per la Bosnia ed Erzegovina, nell’anno del suo delicato rinnovo.
La dimensione internazionale della questione bosniaca
Le minacce di Dodik, infatti, sono arrivate come ritorsione ad uno degli ultimi atti dell’ex Alto rappresentante, Valentin Inzko, che in maniera inaspettata ha emendato il codice civile per vietare la negazione del genocidio e la glorificazione dei criminali di guerra appena prima delle sue dimissioni. A mitigare la tensione non è certo servita la decisione di Berlino di spingere sul tedesco Christian Schmidt come nuovo successore di Inzko, nonostante l’opposizione della Russia.
Tutto questo ha portato alla contrapposizione all’interno del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite fra Russia e Cina e gli altri membri. Il 22 luglio Mosca e Pechino hanno sostenuto la chiusura dell’ufficio dell’alto rappresentante per la Bosnia-Erzegovina, mentre il 3 novembre hanno minacciato di porre il veto al rinnovo annuale della missione di Eufor, la forza militare dell’UE presente in Bosnia-Erzegovina. L’accordo per il rinnovo della missione alla fine è stato condizionale alla rimozione di ogni riferimento all’Alto rappresentante nella risoluzione del Consiglio di sicurezza. Entrambi i paesi, come Dodik, sostengono l’illegittimità e illegalità del mandato di Schmidt e mirano a rendere irrilevante l’istituzione dell’alto rappresentante prima di estinguerla.
Il nodo della dimensione multinazionale
La seconda faccia della crisi riguarda la disputa sulla riforma elettorale e gli attriti tra bosniaci musulmani e bosniaci croati a tale riguardo. Il 2021, infatti, sarebbe dovuto essere un anno di opportunità per definire alcuni elementi chiave per il funzionamento della Bosnia-Erzegovina e modificare la costituzione e la legge elettorale in vista delle elezioni del prossimo anno. Una congiuntura favorita dalla situazione internazionale, che aveva visto nella Bosnia-Erzegovina l’occasione di riaffermare il legame euro-atlantico. Il cambio di amministrazione a Washington e l’opinione della Commissione europea in favore di alcune modifiche costituzionali in Bosnia-Erzegovina hanno ridotto notevolmente le differenze che in questi anni hanno reso difficile un’azione coordinata tra Stati Uniti e paesi europei.
La posta in gioco è alta: sul tavolo c’è la risoluzione di alcune questioni rimaste lungamente irrisolte e che devono definire gli elementi chiave per il funzionamento della Bosnia-Erzegovina quale stato multinazionale. In particolare, sembra giunto il momento per modificare alcuni aspetti della Costituzione di Dayton e della legge elettorale in modo da allinearle alla giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti Umani. Il caso Sejdić e Finci del 2009 e le sentenze successive esigevano infatti la fine della discriminazione politica di quei cittadini non appartenenti ai tre popoli costitutivi.
Quello che in gioco è il passaggio importante verso la definizione di un nuovo compromesso tra gli attori locali che corregga i rapporti tra governo territoriale, popoli costituenti e singoli cittadini. Proprio nel rafforzamento degli elementi territoriali e civici vi è la condizione necessaria per il superamento della presenza esecutiva internazionale nel paese.
Foto di copertina EPA/ANDREJ CUKIC