I primi giorni della Cop26 di Glasgow sono stati consacrati al tentativo di portare la traiettoria delle emissioni climalteranti su un percorso compatibile con l’obiettivo di Parigi, di mantenere l’incremento della temperatura entro i 2 gradi e quanto più possibile vicino a 1.5 gradi rispetto all’era pre-industriale.
A tale scopo, la presidenza britannica ha voluto focalizzare l’attenzione sull’accelerazione dell’uscita dal carbone, la limitazione della deforestazione, l’accelerazione del passaggio verso la mobilità elettrica, e l’aumento degli investimenti in energia rinnovabile.
Gli obiettivi indicati dalla presidenza sono tutt’altro che simbolici. Gli impegni precedenti alla Cop26 implicano un aumento delle temperature vicino ai 3 gradi. Il carbone – e soprattutto il suo utilizzo nella generazione di elettricità, in forte espansione soprattutto in Asia – è il maggiore responsabile singolo delle emissioni climalteranti. Le foreste rimuovono il 20% delle emissioni globali, ma la deforestazione e gli incendi hanno trasformato parte di esse da neutralizzatori a contributori di emissioni.
Infine, i trasporti sono l’unico settore nei Paesi avanzati dove le emissioni hanno continuato a crescere nonostante riduzioni anche sensibili in altri comparti, mentre gli investimenti annuali in energia pulita dovrebbero triplicare rispetto ai livelli attuali per collocarsi sulla traiettoria “net zero” elaborata dall’Agenzia internazionale dell’energia.
Da questo punto di vista, il bilancio dei primi giorni sembra relativamente positivo alla luce di alcune iniziative particolarmente significative, soprattutto per il settore energetico.
Lo stop al carbone
Più di 20 Paesi hanno sottoscritto un impegno a interrompere il sostegno finanziario pubblico a progetti relativi a combustibili fossili (senza cattura e stoccaggio del carbonio) entro la fine del 2022. L’accordo, che vede la partecipazione di Stati Uniti, Regno Unito, Canada, Italia e diversi Paesi in via di sviluppo, dovrebbe spostare 15-18 miliardi di dollari verso l’energia pulita– L’accordo non vede ancora la partecipazione di grandi investitori all’estero nel settore energetico come Germania, Giappone, Corea del Sud e Cina, ma include il maggiore erogatore di sostegno pubblico ai combustibili fossili all’estero (il Canada) e per la prima volta estende questo tipo di impegno dal carbone al gas e al petrolio.
Notizie importanti giungono anche dal fronte del carbone. Più di 40 Paesi si sono impegnati ad un’uscita dal carbone negli anni 2030-2040. L’accordo non include grandi consumatori come Cina, India, Australia e Sud Africa, ma include novità di peso come Vietnam, Indonesia, Filippine e Corea del Sud – che ricorrono al carbone per il 40-60% della generazione di elettricità.
In Europa, mentre molti Paesi sono già usciti dal carbone o hanno sottoscritto impegni, la notizia maggiore riguarda l’impegno della Polonia e dell’Ucraina. L’impegno garantisce alcune vie d’uscita e diversi firmatari si sono solo “parzialmente” impegnati. Tuttavia, la presenza di molti Paesi in via di sviluppo ha un ruolo importante nel rovesciare la narrazione secondo cui il carbone sarebbe un ingrediente imprescindibile per l’uscita dalla povertà.
Occorre inoltre notare che i grandi assenti (India e Cina) hanno presentato tabelle di marcia volte a creare lo spazio sufficiente per acquisire impegni pubblici sul carbone in un momento successivo. Ad esempio, l’obiettivo di energia rinnovabile dell’India nel 2030 implica una riduzione della generazione a carbone per quella data rispetto al 2020, anche considerando la crescita attesa dei consumi di elettricità. Il Sudafrica ha invece ottenuto da Usa, Regno Unito e Ue la mobilitazione di 8,5 miliardi di dollari per un’uscita accelerata dal carbone.
Ridurre le emissioni metano e salvare le foreste
Inoltre, 80 paesi hanno sottoscritto l’impegno a ridurre le emissioni fuggitive di metano del 30% entro il 2030. L’impegno, fortemente sostenuto da Usa e Ue, copre il 46% delle emissioni di metano e non è in linea con l’obiettivo di 1,5 gradi, per il quale si renderebbe necessario un 10-15% di tagli aggiuntivi. L’impegno riguarda soprattutto monitoraggio e regolamentazione, visto che – soprattutto con gli attuali prezzi del gas – il recupero del metano dovrebbe finanziarsi da sé. Occorre tuttavia precisare che mentre in molti vedono il taglio alle emissioni fuggitive di metano come una soluzione rapida, si tratta di un’azione relativamente semplice che non sostituisce la necessità di attaccare le emissioni di CO2 – meno climalteranti, ma più durature nel tempo -.
Infine, un accordo è stato raggiunto sul tema della deforestazione. Le parti si impegnano a fermare e invertire le attività di deforestazione entro il 2030 e a dedicare 19,2 miliardi di dollari a questo sforzo. Da notare la partecipazione di partner “difficili” come Brasile, Cina, Russia e Indonesia. Tuttavia, nonostante la maggiore inclusività, l’accordo soffre gli stessi difetti dei predecessori in termini di mancanza di trasparenza nella comunicazione dei risultati, assenza di timeline e natura non vincolante
Alla luce dei nuovi impegni sottoscritti – in particolare l’annuncio dell’obiettivo di neutralità climatica da parte dell’India nel 2070 e relativi obiettivi intermedi, e l’impegno sul metano, si stima che per ora la Cop26 abbia spostato la traiettoria dell’aumento delle temperature da 2,7 gradi a 1,8-1,9 gradi. Insomma, sebbene la finestra per puntare ai 1,5 gradi si stia restringendo, gli impegni si collocano per la prima volta in un intervallo compatibile con l’accordo di Parigi.
Moderato ottimismo
Da questo punto di vista, si può guardare al negoziato con moderato ottimismo. Sebbene gli accordi presentino lacune, l’implementazione rimanga un’incognita, e lo scarso protagonismo della Cina in questa prima fase della conferenza non sia un buon segno, il quadro di Parigi viene confermato e costituisce ormai un imprescindibile riferimento per le decisioni degli Stati. Tale esito rappresenta di per sé un successo rispetto agli obiettivi iniziali.
Molto probabilmente il risultato finale sarà soddisfacente e deludente allo stesso tempo, con difficili negoziati in vista su capitoli problematici come il commercio delle emissioni – su cui la precedente edizione non ha trovato un accordo. Occorre tuttavia sottolineare che al di là di interpretazioni ultra-ottimistiche (tipiche fra i padroni di casa) e ultra-pessimistiche (per motivi opposti comuni a attivisti più radicali e “procrastinatori” clima-scettici), sarebbe un errore vedere la Cop26 come la conferenza dell’ultima chance.
Il problema è ritenuto grave da tutti, la soluzione implica una dimensione allocativa che rende necessario un processo politico multilaterale fatto di continue correzioni di rotta, ma soprattutto ogni decimo di grado conta.
Foto di copertina EPA/Jonne Roriz / POOL