La Belt and Road Initiative (BRI), assieme al Memorandum of Understanding (MoU) ad essa legato sottoscritto tra l’Italia e la Repubblica popolare cinese a marzo 2019, è stata una delle questioni di politica estera più delicate nel dibattito pubblico italiano degli ultimi cinque anni. Per comprenderne appieno il significato, bisogna guardare in maniera più ampia all’evoluzione storica delle relazioni italo-cinesi, in particolare dalla riapertura dei rapporti diplomatici avvenuta nel 1970.
Le relazioni Italia-Cina prima del MoU
Italia e Cina sono legate sin dall’antichità da rapporti di carattere non solo culturale, ma anche commerciale. Già nel 1866 il Regno d’Italia sottoscrisse un Trattato di amicizia, commercio e navigazione con la Cina imperiale; in seguito alla rivolta dei Boxer, nel 1901-2, l’Italia ottenne la concessione di Tianjin, mentre negli anni Trenta le rispettive rappresentanze diplomatiche vennero elevate al livello di ambasciata. Tuttavia, dopo il congelamento dei rapporti seguito alla nascita della Repubblica popolare cinese, solo a partire dalla fine degli anni Settanta le relazioni si sono pienamente sviluppate in ambito economico e commerciale.
Grazie alle riforme promosse dalla dirigenza comunista post-Mao, negli ultimi decenni la Cina si è resa protagonista di una rapida crescita economica che ha portato ad un processo di modernizzazione interna. Alla crescita economica, ulteriormente accelerata a seguito dell’ingresso nell’Organizzazione mondiale del commercio nel 2001, ha corrisposto l’emergere di nuove ambizioni a livello internazionale. Espressione emblematica è stata proprio il varo della Belt and Road Initiative da parte del Presidente Xi Jinping nel 2013: un’iniziativa di carattere non solo geo-economico, ma dalle chiare implicazioni geopolitiche e persino geoculturali.
È a fronte di questo nuovo attivismo cinese che nel 2015, in occasione del 45° anniversario delle relazioni diplomatiche tra Italia e Cina, l’allora Ministro degli Affari Esteri italiano Paolo Gentiloni aveva annunciato la visione strategica “Road-to-50” per i rapporti tra i due paesi nei successivi cinque anni. Nel 2017 era stato poi formalizzato un Piano d’azione, che mirava a potenziare la partnership tra Italia e Cina, estendendola dai tradizionali settori economici, commerciali e finanziari a quelli culturale, scientifico-tecnologico, ambientale e turistico. Particolare enfasi veniva posta sulla complementarità tra le economie, sulle strategie di innovazione industriale e sull’integrazione finanziaria. Infine, sempre nel 2017, Gentiloni era stato l’unico capo di governo del G7 a partecipare al primo Forum della Belt and Road Initiative (BRI), in un contesto caratterizzato da intense discussioni su possibili investimenti cinesi nelle infrastrutture italiane, specie portuali (Genova e Trieste).
L’Italia entra nella BRI – ma fino a quando?
Con l’avvento del governo Conte I nel 2018, si era registrata un’apertura ulteriore nei confronti della Cina. Il culmine di questa cooperazione veniva sancito nel marzo 2019 con la firma del già citato MoU sulla BRI durante la visita di Xi Jinping in Italia. In quella circostanza, il presidente del Consiglio aveva sottolineato come la firma del MoU rappresentasse “un accordo quadro non vincolante”, con finalità di cooperazione economica e commerciale.
Un ruolo di particolare rilievo nel percorso che aveva portato alla firma del MoU era stato svolto dall’allora Ambasciatore di Cina in Italia Li Ruiyi, che aveva lavorato per promuovere la cooperazione tra i due paesi, individuando cinque settori prioritari: manifattura, servizi, risparmio energetico, trasporti intelligenti e green economy. L’ambasciatore aveva identificato opportunità legate all’evoluzione dell’economia cinese, alla sua apertura verso l’esterno, alla Belt and Road Initiative come strumento di connettività e investimento, e alle iniziative culturali, in un’ottica win-win.
Tuttavia, negli anni successivi alla firma del MoU si sono verificate delle difficoltà che hanno frenato notevolmente la cooperazione sino-italiana. Anzitutto, nonostante le rassicurazioni del governo italiano sulla natura principalmente economica dell’accordo, la firma del Memorandum ha da subito sollevato preoccupazioni strategiche tra gli alleati tradizionali, sia in Europa che negli Stati Uniti. Questo fatto, unito al peggioramento della percezione della governance cinese a seguito dello scoppio pandemia da Covid-19 tanto nella comunità internazionale quanto agli occhi dell’opinione pubblica italiana, ha reso di fatto la presenza dell’Italia nella BRI sempre più precaria.
La decisione da parte italiana di non rinnovare il MoU, ufficializzata pochi giorni fa dal governo Meloni, era quindi nell’aria da tempo. La sfida adesso per il nostro paese è quella di come gestire al meglio il mancato rinnovo, di modo che non precluda il prosieguo di una dinamica positiva nelle relazioni bilaterali tra Roma e Pechino.
foto di copertinaANSA/ALESSANDRO DI MEO