22 Dicembre 2024

Piano Italia-Albania: verso un nuovo modello per la gestione dei flussi migratori?

Da due settimane, si discute del protocollo Italia-Albania sulla gestione dei migranti, firmato dalla Presidente del Consiglio Giorgia Meloni e dal Primo Ministro albanese Edi Rama il 6 novembre 2023. L’annuncio dell’accordo ha scatenato varie critiche concentrate sulla possibile violazione delle norme internazionali, europee e italiane in materia di diritto d’asilo.

Nonostante i dubbi suscitati dall’accordo, questo si inserisce in un quadro più ampio di esternalizzazione della gestione dei flussi migratori, un fenomeno caratteristico dell’Europa degli ultimi anni e non solo. A tal proposito, la premier Meloni ha dichiarato che l’accordo Italia-Albania potrebbe diventare “un modello di collaborazione tra Paesi Ue e Paesi extra-Ue sul fronte della gestione dei flussi migratori”.

L’accordo in breve

L’accordo, il cui contenuto è stato reso pubblico, prevede la realizzazione di due centri in Albania, operativi dalla primavera 2024, dove saranno trasferiti i migranti messi in salvo nel Mediterraneo da navi italiane. L’accordo dunque riguarda le persone salvate dalle navi della Marina Italiana, Guardia Costiera e Guardia di finanza, e non quelle salvate dalle ong. I migranti saranno trattenuti in questi centri per il tempo necessario per la gestione delle pratiche relative alla richiesta di asilo ed eventuale rimpatrio.

Nel porto di Shengjin, nel nord del paese, dovrebbe essere realizzato un centro di prima accoglienza per le procedure di screening e identificazione. Nell’area di Gjader, invece, dovrebbe essere realizzata una seconda struttura dove trattenere le persone che, dopo un primo screening, non risulterebbero possedere i requisiti per il diritto d’asilo. La scelta di quest’area è legata alla presenza di un’ex base sotterranea dell’aeronautica militare albanese, che potrebbe facilitare eventuali rimpatri dal punto di vista logistico.

Secondo quanto emerge dal protocollo e dalle dichiarazioni ufficiali, queste aree sarebbero temporaneamente sotto la giurisdizione italiana per la durata dell’accordo, e si applicherebbero le norme italiane ed europee in materia di migrazione e diritto d’asilo. Sarebbero, inoltre, a carico dell’Italia, non solo la costruzione delle strutture, ma anche tutte le spese legate alla gestione delle stesse, incluse quelle legate all’allontanamento dei migranti a cui non viene riconosciuto il diritto d’asilo.

Da parte dell’Italia, l’accordo punterebbe ad alleviare il sovraffollamento dell’hotspot a Lampedusa, dato l’elevato numero di sbarchi dello scorso settembre. Secondo i dati del governo, dal 1° gennaio 2023 ad oggi (28 ottobre 2023 ndr), gli sbarchi sarebbero 147.239, un aumento repentino comparato con i 92.881 e 59.069 rispettivamente per lo stesso periodo degli anni 2022 e 2021.

Regno Unito – Ruanda: quali differenze?

Al di là delle speculazioni sulla fattibilità, sia dal punto di vista legale che logistico, l’accordo, che prevede un’esternalizzazione della gestione delle richieste di asilo in un paese terzo, non è un unicum nel panorama delle politiche migratorie. Non si tratta, infatti, del primo accordo di questo genere.

Similitudini emergono tra l’accordo a firma Italia-Albania e un precedente accordo tra il Regno Unito e il Ruanda risalente all’aprile 2022. L’accordo tra Londra e Kigali era stato firmato il 13 aprile 2022 e avrebbe dovuto permettere al Regno Unito di trasferire nel Paese africano i richiedenti asilo le cui domande dovevano ancora essere esaminate, offrendo al Ruanda più di 140 milioni di euro all’anno. L’accordo britannico è stato poi bloccato dalla Corte di appello britannica a seguito di numerosi ricorsi da parte di individui e organizzazioni per la tutela dei diritti umani, dopo l’opposizione anche della Corte europea dei diritti dell’uomo. Il processo legale sull’accordo si è concluso il 15 novembre, con la conferma dell’illegalità del piano da parte della Corte suprema britannica.

Volgendo lo sguardo verso un panorama geografico più ampio, l’accordo del 6 novembre potrebbe richiamare anche il caso australiano dell’isola di Nauru. Nel 2001, il Canberra aveva varato un programma definito “Pacific solution”, che prevedeva il trasferimento forzato degli immigrati irregolari in centri costruiti su alcune isole della Micronesia.

Nonostante le prime somiglianze tra gli accordi, in termini di obiettivi, sembrano esserci delle differenze con la proposta a firma Meloni-Rama. Riguardo la proposta del governo britannico, la stessa portavoce della Commissione Europea, Anitta Hipper, ha affermato che le due proposte sembrano differenti. La prima differenza che emerge riguarda il paese terzo dove dovrebbero essere trasferiti i migranti. Infatti, a differenza dell’Albania, la classificazione del Ruanda come “Paese sicuro” da parte di Londra è ampiamente contestato, sia dalle corti britanniche stesse, sia a livello europeo.

Inoltre, mentre l’accordo Italia-Albania prevede la ricollocazione di migranti non ancora sbarcati sul suolo italiano, il piano britannico prevedeva il trasferimento di richiedenti asilo che si trovavano già nel Regno Unito. L’altra principale differenza riguarda il fatto che, nel caso italiano, è prevista la creazione di centri di rimpatrio sotto giurisdizione italiana, la cui permanenza dei migranti è mantenuta nel periodo strettamente necessario alla gestione delle pratiche, mentre nel caso britannico si trattava di un trasferimento permanente. Infatti, qualora fosse accettata la domanda di asilo, il migrante sarebbe rimasto sul suolo ruandese. Infine, secondo quanto sottolineato dall’esperto Christopher Hein, nel caso dell’Albania i migranti sarebbero protetti dalla Convenzione europea sui diritti dell’uomo. Se queste differenze porteranno il piano italiano ad un esito diverso rispetto a quello britannico, sarà comunque da vedere.

Esternalizzare le migrazioni: un trend più ampio

L’affermazione di Meloni circa la creazione di un modello Ue – extra Ue per la gestione dei flussi non risulta priva di fondamenti. Molti paesi europei stanno seguendo da vicino gli sviluppi dell’accordo e valutando modelli simili per la gestione dei flussi migratori.

Già lo scorso anno, il governo danese stava valutando la possibilità di creare centri di accoglienza per i rifugiati in paesi terzi, proposta poi in stallo con le elezioni generali. Anche il governo austriaco si è dimostrato aperto a valutare l’opzione di processare le richieste di asilo in un paese terzo, prima di permettere ai migranti di toccare il suolo europeo. Infine, il cancelliere tedesco Scholz ha ammesso di star considerando opzioni simili al piano UK-Ruanda o Italia-Albania.

Il nodo rimpatri

Più in generale, l’accordo si inserisce in un trend più ampio di esternalizzazione della gestione dei flussi migratori, cominciato con l’esternalizzazione delle frontiere europee con gli accordi con la Turchia e memorandum con la Tunisia. Non sorprende, dunque, la reazione della stessa Commissione, che si è rivelata più cauta rispetto a quella dell’accordo britannico.

Oltre alle possibili complicazioni legate a potenziali violazioni delle norme internazionali ed europee in materia di asilo, rimane da valutare l’effettivo impatto positivo di un piano del genere sulla crisi migratoria e la sua efficacia come modello per la gestione dei flussi migratori. Se da un lato questo piano consentirebbe la gestione delle richieste di asilo in un paese terzo, dall’altro rimane poco chiaro come verranno gestite le situazioni di coloro ai quali non sarà riconosciuto il diritto d’asilo. Secondo quanto emerge dalle dichiarazioni e dal protocollo stesso, i rimpatri dovrebbero essere effettuati a spese dell’Italia stessa e, in caso di fallimento, l’Italia sarebbe chiamata ad accogliere i migranti sul proprio territorio.

Considerando che sia a livello europeo che nazionale il numero effettivo di rimpatri annuali è molto inferiore rispetto agli ordini emessi, resta incerto se spostare geograficamente la gestione delle domande d’asilo avrà un impatto tangibile. Sorgono dubbi sul fatto che, oltre ai costi derivanti dalla costruzione e gestione di tali strutture, effettivamente poi non cambi niente.

foto di copertina ANSA/GIUSEPPE LAMI

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