Era noto sin dall’inizio che le forze politiche che formano il governo Meloni erano in linea di principio interessate ad un ritorno dell’ Italia all’ energia nucleare nonostante una doppia decisione referendaria sul suo abbandono nel 1987 all’indomani del terribile incidente di Chernobyl (oggi Ucraina) e nel 2011 successivamente all’incidente di Fukushima (Giappone). La crisi ambientale e la ricerca di ogni possibile alternativa ai combustibili fossili rendevano plausibile tale orientamento che venne corroborato poi dall’abbandono delle forniture di gas russo a seguito dell’invasione dell’ Ucraina.
È di questi giorni la notizia, anticipata dal Sole 24 Ore, di un ulteriore sviluppo attraverso la presentazione al governo da parte di imprese ed enti statali di un piano per il ritorno al nucleare che dovrebbe condurre, tra il 2030 ed il 2050, alla costruzione di “15/20 mini centrali nucleari per un investimento complessivo di 30 miliardi”.
A livello internazionale non vi è alcuna proibizione nei confronti del nucleare civile; il ricorso a tale tipo di energia viene anzi dichiarato “un diritto inalienabile” di tutti gli Stati che, come l’ Italia, hanno rinunciato a dotarsi dell’ arma atomica ai sensi del Trattato di Non proliferazione nucleare del 1970 (TNP). Nello sviluppo dell’energia nucleare civile, questi stati possono anche avvalersi di un’assistenza internazionale. Non è neppure proibita dal TNP la produzione del combustibile (uranio arricchito e plutonio) necessario per alimentare le centrali. Il caso del nucleare iraniano insegna però che quest’ultima attività rimane a tutt’oggi estremamente controversa.
La necessità di un impegno bipartisan
Inutile dire che un ritorno al nucleare sarebbe un progetto impegnativo, costoso ma anche politicamente controverso. La recente iniziativa degli industriali fa seguito ad una mozione parlamentare del marzo scorso in cui si invitava il governo a continuare a investire in ricerca e sviluppo in campo nucleare ”nella prospettiva di partnership internazionali pubbliche e private in tal settore”. In effetti un piano di tale portata non può avvenire in un contesto esclusivamente nazionale.
Prudentemente la premier Meloni, nel rispondere alla mozione, affermò che nel campo nucleare il governo non intende intraprendere alcuna azione ”in assenza di un eventuale, chiaro atto di indirizzo del Parlamento”. Fu una decisione saggia ma forse non sufficiente. Per un progetto come quello del ritorno al nucleare, la cui realizzazione durerebbe alcuni decenni, occorre non solo una chiara decisione dell’attuale Parlamento che in linea di principio sarebbe facilmente raggiungibile.
Sarà necessario anche costruire un consenso “bipartisan” cui associare una larga parte dell’opinione pubblica, del mondo sociale e anche dell’opposizione. Proprio per blindare una decisione di questa portata. Il paese non si può permettere di abbandonare “a metà del guado”, come avvenuto nel 1988 per la centrale di Montalto di Castro, un progetto di queste dimensioni.
foto di copertina ANSA/LUCA ZENNARO