In molti si domandano se la Spagna sia stata contagiata dal virus dell’instabilità politica. Da una decina d’anni il paese iberico è entrato, infatti, in una spirale che ha provocato già in due occasioni (2016 e 2019) la necessità di ripetere le elezioni. L’indebolimento dei due grandi partiti, i popolari a destra e i socialisti a sinistra, ha reso difficile la formazione di maggioranze in un parlamento più frammentato che in passato. Dopo il voto anticipato dello scorso 23 luglio a Madrid ancora non c’è un nuovo esecutivo, mentre la Spagna detiene la presidenza di turno del semestre europeo. Facciamo il punto della situazione.
Feijóo, un candidato sconfitto in partenza
Contro tutti i pronostici, alle legislative di luglio le destre non hanno fatto l’en plein, per quanto il Partido Popular (PP) sia stato la formazione più votata. Il re Felipe VI ha incaricato il leader del PP, Alberto Núñez Feijóo, di formare una maggioranza, pur sapendo che le sue possibilità erano praticamente nulle. Ai 137 deputati del suo partito, Feijóo poteva sommare solo i 33 dell’estrema destra di Vox, con cui ha stretto alleanze di governo già in cinque regioni e oltre un centinaio di comuni, oltre ai rappresentati di due formazioni regionaliste di centro-destra della Navarra e delle Canarie che dispongono di un deputato ciascuna.
Per quanto i popolari abbiano cercato di fare ricorso al transfughismo, chiedendo esplicitamente ai socialisti critici con l’attuale premier Pedro Sánchez di votare per Feijóo o almeno di astenersi, nelle due votazioni tenutesi il 27 e 29 settembre non ci sono state sorprese. Il candidato del PP ha raggranellato solo 172 voti a favore, lontano dunque dalla maggioranza assoluta rappresentata dai 176 seggi nel Congreso di Madrid. Più che esporre un proprio programma di governo, Feijóo ha passato il tempo ad attaccare Sánchez, pensando soprattutto a rafforzarsi come futuro leader dell’opposizione e ad evitare che dentro il suo stesso partito gli facessero le scarpe.
Sánchez, due mesi per risolvere il rebus
Il voto del 27 settembre ha messo però in moto quello che colloquialmente si chiama “orologio costituzionale”. Secondo la Carta Magna spagnola, infatti, dopo la prima votazione, il Parlamento ha due mesi di tempo per trovare una quadra. Ciò significa che Sánchez, incaricato da Felipe VI dopo un nuovo giro di consultazione con i leader dei partiti, deve riuscire entro il 27 novembre a raggranellare i voti necessari per rimanere al palazzo della Moncloa. In caso contrario, si torna al voto, previsto per il 14 gennaio.
Ora, sulla carta la missione del leader socialista è fattibile. Vale la pena ricordare che nella scorsa legislatura Sánchez ha guidato un governo di minoranza formato dal Partido Socialista Obrero Español (PSOE) e Unidas Podemos, appoggiato esternamente da diverse formazioni regionaliste e nazionaliste, inclusi gli indipendentisti baschi e una parte dei catalani. L’esperienza, tacciata spregiativamente come “governo Frankenstein” dalle destre, ha in realtà funzionato senza troppi disagi: l’esecutivo è riuscito ad applicare una coraggiosa agenda progressista che non solo è considerata un modello per le sinistre europee, ma che ha permesso alla Spagna di ottenere risultati macroeconomici molto positivi, lodati anche dalle istituzioni comunitarie.
La differenza è che adesso al PSOE (121 deputati) non bastano i voti di Sumar (31) – la nuova coalizione di sinistra guidata dalla ministra del Lavoro Yolanda Díaz che “sostituisce” Unidas Podemos –, del Partido Nacionalista Vasco (5), Esquerra Republicana de Catalunya (ERC, 7), EH Bildu (6) e il Bloque Nacionalista Galego (1). Servono anche i voti a favore di Junts per Catalunya (JxCAT, 7), il partito indipendentista di destra guidato dall’autoesilio belga Carles Puigdemont. Tertium non datur: di soluzioni alternative non ce ne sono. Insomma, la soluzione del rebus la si conosce, il problema è riuscire a metterla in pratica. Anche perché negli ultimi quattro anni JxCAT ha votato sempre contro l’esecutivo guidato da Sánchez.
Lo scoglio dell’amnistia
Negli ultimi due mesi ci sono stati alcuni passi in avanti. L’elezione alla presidenza della Camera dei deputati della socialista Francina Armengol con il voto di tutti i partiti di quella che potrebbe essere la maggioranza di governo è stato un segnale sicuramente incoraggiante. JxCAT ha ottenuto in cambio il riconoscimento del catalano come lingua ufficiale nelle istituzioni dello Stato – ora i deputati possono intervenire in catalano, basco e galiziano nel Congreso – e nell’Unione Europea, processo avviato dalla richiesta del governo di Madrid la cui risoluzione positiva dipenderà dalla decisione dei 27 membri dell’Ue.
In una conferenza stampa tenuta a inizio settembre, Puigdemont ha posto altre condizioni per votare a favore di Sánchez, riassumibili in un’amnistia per i tutti i politici e attivisti catalani condannati o sotto processo per i fatti del 2017 e in un referendum di autodeterminazione. La prima condizione è accettabile per i socialisti e, infatti, si sta lavorando già in questa direzione, presentando l’amnistia come la risoluzione di un conflitto politico che si era incancrenito. Sarebbe la ciliegina sulla torta della politica di distensione e ricostruzione dei ponti di dialogo tra Madrid e Barcellona avviata da Sánchez cinque anni fa che ha avuto il suo primo momento clou nell’indulto concesso nel 2021 ai principali leader indipendentisti incarcerati.
Il referendum di autodeterminazione: una chimera
Certo, bisognerà leggere tra le righe del testo della legge, sempre che si arrivi ad approvarla, capirne le conseguenze effettive e vedere che dirà la Corte Costituzionale. Anche perché la destra, supportata da un potente sistema mediatico amico, taccia Sánchez di traditore della patria, pronto a vendere l’unità del paese per un piatto di lenticchie. Fioccheranno poi i ricorsi ai tribunali dove la maggioranza della magistratura è conservatrice. È sintomatico, ad esempio, che il 25 settembre, ossia due giorni prima del tentativo di Feijóo di essere eletto presidente, la destra abbia organizzato a Madrid una manifestazione contro l’amnistia quando Sánchez non era nemmeno incaricato dal re di formare un governo. Insomma, il clima è incendiario e lo sarà ancora di più nei prossimi mesi.
La seconda condizione posta da Puigdemont, un referendum legale di autodeterminazione per la Catalogna, è invece inaccettabile per i socialisti. Se, come sembrerebbe, c’è volontà politica, non si tratta però di uno scoglio insuperabile. La soluzione che salverebbe capra e cavoli è quella di un voto consultivo tra i cittadini catalani sulla risoluzione del conflitto previo accordo politico tra Barcellona e Madrid. Il dialogo sarebbe all’interno della cornice costituzionale e gli indipendentisti potrebbero vendere alle proprie basi che un voto al riguardo c’è stato.
Le tensioni nell’indipendentismo
Detto ciò, i margini sono stretti e non è chiaro che tutto vada liscio. È vero che, dopo dieci anni, la destra catalana è tornata a fare politica, mostrando un certo grado di pragmatismo. D’altro canto, difficilmente in futuro potrà godere di migliori condizioni, ossia avere la chiave della maggioranza parlamentare a Madrid, tenendo poi conto del continuo declino elettorale dei partiti indipendentisti. Razionalmente, l’accordo è quanto di meglio gli possa capitare.
Sappiamo però che la razionalità non sempre è alla base delle scelte politiche. In JxCAT ambiguità e ritrosie non sono scomparse. Anche perché, da una parte, i settori più intransigenti del separatismo stanno facendo pressione su Puigdemont, visto già come l’ennesimo traditore della causa. Dall’altra, l’annosa lotta per l’egemonia nello spazio indipendentista tra JxCAT e ERC potrebbe portare a una gara al rialzo nelle richieste che farebbe naufragare l’accordo con Sánchez.
Una legislatura breve?
Il leader socialista si dice in ogni caso fiducioso e parla di una legislatura di quattro anni con un programma di governo che all’agenda sociale affiancherebbe la risoluzione del contenzioso territoriale, ma, sotto sotto, non chiude del tutto la porta a una ripetizione elettorale, sempre che non sia lui a rimanere con il cerino in mano. La giocata, utilizzata già nel 2019, non gli portò molta fortuna. Ora sarebbe un azzardo e significherebbe quasi sicuramente consegnare il paese a una destra trumpizzata.
Certo, in caso Sánchez riuscisse nell’impresa, la strada della legislatura sarà impervia. Ogni votazione si trasformerebbe in un potenziale Vietnam con il governo a rischio di andare sotto ogni volta in parlamento. Tenere insieme gli interessi di tutti i soci della maggioranza richiederà finezza e infinita pazienza, anche per le differenze ideologiche esistenti. E la destra, che controlla il Senato e la maggior parte delle regioni, farà di tutto per far cadere l’esecutivo. Nessuno scarta, insomma, che se accordo ci sarà, la legislatura potrebbe essere breve. Vedremo. In ogni caso, ora tocca a Sánchez la prossima mossa. Entro fine novembre sapremo se a Madrid continuerà ad esserci un governo progressista.
Foto di copertina EFE/Sergio Perez