Stop agli aiuti all’Ucraina, almeno per i prossimi 45 giorni: è il prezzo pagato dal presidente Biden per l’accordo raggiunto poco prima della mezzanotte di sabato 30 settembre: è stato così sventato, in extremis, il rischio di uno shutdown federale che, dal primo ottobre, avrebbe privato di servizi decine di milioni di cittadini e dello stipendio milioni di dipendenti pubblici.
Insieme alla vittoria nelle elezioni in Slovacchia dell’ex premier populista Robert Fico, contrario all’invio di armi a Kyiv, il compromesso a Washington fra democratici e repubblicani potrebbe essere un segnale di indebolimento del sostegno dell’Occidente all’Ucraina. Ma il presidente Usa rassicura: “Mi aspetto che il sostegno all’Ucraina continui”; e auspica che l’appoggio a Kyiv “vada avanti”, nonostante quanto previsto dalla legge da lui appena firmata – lo stop riguarda nuovi aiuti, non quelli già autorizzati, ed è temporaneo -.
Joe Biden aggiunge: “Non possiamo assolutamente smettere di aiutare l’Ucraina contro la brutalità della Russia… Non la abbandoneremo… Kyiv e i nostri alleati europei possono contare su di noi”. Ma è fuor di dubbio che i repubblicani, di qui alle elezioni, saranno più restii ad autorizzare spese per l’Ucraina, che molti degli aspiranti alla nomination non considerano un “interesse vitale” degli Stati Uniti.
L’accordo in extremis
Nella notte tra sabato e domenica, Biden ha firmato e tradotto in legge l’accordo varato da Camera e Senato, quando lo shutdown sembrava ormai inevitabile e dipendenti e cittadini erano già stati avvertiti dell’impatto della ‘serrata’’. Le agenzie federali destinate a una provvisoria chiusura, come parchi e musei, avevano già notificato ai loro dipendenti di stare a casa. Militari, forze dell’ordine e personale addetto a servizi essenziali avrebbero invece dovuto lavorare senza retribuzione, almeno fin quando il funzionamento della pubblica amministrazione non fosse stato di nuovo garantito.
Alla Camera, la misura è passata con 91 voti contrari (su 445), 90 repubblicani e un democratico, Mike Quigley, che spiega di aver detto ‘no’ per l’Ucraina: il compromesso “è una vittoria per Putin e per chi simpatizza per Putin ovunque nel Mondo”.
Ma il leader dei senatori democratici Chuck Schumer ha commentato: “Gli americani possono tirare un sospiro di sollievo… Dopo avere provato a tenere in ostaggio l’Amministrazione, i repubblicani del Maga – i ‘trumpiani’, ndr – non hanno ottenuto nulla”. Ma la distanza fra le parti resta notevole, in vista in un accordo definitivo.
Al Senato, i contrari sono stati solo nove (su 100), tutti repubblicani. L’intesa ‘last minute’ allarga, però, la frattura nel gruppo repubblicano alla Camera, dove i ‘trumpiani’, contrari al compromesso, mettono in discussione la leadership dello speaker Kevin McCarthy, la cui elezione, all’inizio dell’anno, era stata molto sofferta. Dal gennaio 2021, McCarthy oscilla tra la linea ‘trumpiana’ e quella dell’ala più moderata del suo partito.
L’accordo proroga fino al 15 novembre il tempo a disposizione per trovare un accordo duraturo sul finanziamento della spesa pubblica e chiude, per il momento, settimane di negoziati inconcludenti: il sì è venuto prima dalla Camera, dove i repubblicani sono maggioranza, e poi dal Senato, dove prevalgono i democratici.
McCarthy, che fino a venerdì pareva deciso, o rassegnato, ad andare allo shutdown, ha cambiato idea in una mattina che la stampa Usa definisce “caotica” e ha avallato la ‘pecetta’ sui conti dello Stato. L’intesa autorizza un aumento dei fondi per aiuti in caso di disastri nazionali e lascia inalterati gli altri livelli della spesa pubblica.
Poche ore prima, un’altra proposta di compromesso presentata da McCarthy s’era infranta contro l’opposizione dell’estrema destra del suo partito, contraria a gonfiare la spesa pubblica, nonostante essa sia cresciuta proprio sotto la presidenza di Donald Trump, portando il debito Usa a livelli senza precedenti (oltre 32 mila miliardi di dollari).
Rapporti di forza, impeachment e processi
Nei giorni scorsi, i rapporti di forza in Congresso fra democratici e repubblicani sono divenuti più precari per la morte della senatrice democratica della California Dianne Feinstein, oltre 90 anni e, da tempo, molto malata.
Al suo posto, il governatore della California Gavin Newsom intende nominare, fino a che non si svolgano elezioni suppletive, Laphonza Butler, una nera attualmente a capo della Emily’s List, un’organizzazione nazionale che aiuta le donne a raggiungere posizioni di rilievo in politica. Butler è attiva nella politica californiana da circa 15 anni, ha guidato il più grande sindacato dello Stato ed è stata consigliere della vice-presidente Kamala Harris.
La nomina di Butler puntella la maggioranza democratica al Senato, estremamente esigua: senza Feinstein, ci sono 47 senatori democratici, tre indipendenti che votano con i democratici e 49 repubblicani.
E se lo shutdown è stato temporaneamente sventato, i contenziosi nel Congresso tra repubblicani e democratici restano numerosi ed aspri, specie dopo l’avvio, alla Camera, di audizioni per decidere se lanciare o meno una procedura di impeachment contro il presidente Biden: i repubblicani mirano a “provare le responsabilità” del presidente, che avrebbe favorito gli affari del figlio Hunter in Cina e in Ucraina, e convincere l’opinione pubblica e, in particolare, i senatori, cui spetta pronunciarsi sull’impeachment ser la Camera mette sotto accusa il presidente.
Finora, i repubblicani non sono però riusciti a dimostrare che Biden abbia tratto qualsiasi vantaggio, politico o economico, dagli affari del figlio.
In vista dello shutdown, il Congresso stesso s’era messo in ‘modalità di crisi’. Molti repubblicani erano però preoccupati: una serrata dei servizi pubblici avrebbe rallentato l’economia e creato difficoltà alla vita di decine di milioni di cittadini, fra cui i sette milioni, specie donne e bambini, che beneficiano di programmi assistenziali; e avrebbe avuto un impatto elettorale negativo, perché la responsabilità dei problemi sarebbe ricaduta sull’opposizione..
Le vicende congressuali si intrecciano con la campagna elettorale e anche con le vicende giudiziarie di Donald Trump, che sarà oggi in aula a New York nel processo per i suoi beni ‘gonfiati’. Giorni fa, un suo co-imputato in Georgia per il tentativo di rovesciare l’esito del voto del 2020 nello Stato s’è dichiarato colpevole: è il primo a farlo fra i 19 a giudizio, con una mossa che indebolisce l’assetto difensivo del magnate ex presidente.
Domenica, parlando nello Iowa della guerra in Ucraina, Trump ha detto: “Quand’ero presidente, Putin non invase l’Ucraina perché gli dissi di non farlo”. Potenza della parola?, o ennesima balla?
Foto di copertina EPA/MICHAEL REYNOLDS